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Lo psicodramma delle dimissioni di Ignazio Marino da sindaco della Capitale, propiziate da suoi improvvidi comportamenti, gradite, se non addirittura auspicate, dalla Curia e, prima sollecitate, poi congelate per ragioni contingenti, finalmente pretese con forza dal Partito che lo espresse, volge a un epilogo ormai scontato, salvo naturalmente colpi di scena, allo stato non più prevedibili.

A giorni, peraltro, andrà in scena il giudizio per l’accertamento dei misfatti e delle responsabilità ipotizzate all’esito dell’inchiesta della procura della Repubblica di Roma denominata “Mafia Capitale“, che undici mesi or sono squarciò il velo dell’ipocrisia e fece crollare ogni alibi per chi faceva finta di nulla, si voltava dall’altra parte, diceva di non sapere, avendo condotto a emersione le infiltrazioni della criminalità nella gestione della cosa pubblica, la sistematica promozione di business inconfessabili su bisogni primari della collettività, le manipolazioni della pubblica amministrazione capitolina, mediante il finanziamento di campagne e cene elettorali, per coinvolgere nel réseau politici di destra e di sinistra.

Mancano meno di due mesi dall’apertura della Porta Santa, momento iniziale del Giubileo straordinario della Misericordia, e la Capitale, per dirla con le parole poco felpate dell’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, “ha la certezza solo delle proprie macerie”: infiltrazioni mafiose nel sistema degli appalti, “forti dell’appoggio di funzionari amministrativi fino a qualche mese fa intoccabili”; la raccolta dei rifiuti e la gestione delle discariche, avvolte da “un velo oscuro”; i monumenti deturpati dai chioschi dei venditori ambulanti; i servizi essenziali, a partire dai trasporti pubblici, che non si riescono a liberalizzare e a rendere efficienti; il sospetto “che ci sia molto da indagare” anche sulla manutenzione delle strade. Nell’incalzare degli eventi, non ha senso chiedersi se Roma meriti davvero tutto questo. Inquieta, piuttosto, l’impronta genetica che caratterizza ab immemorabili la Capitale. Un’impronta genetica che non alimenta soverchie speranze per il futuro e getta un’ombra cupa su quella che si vorrebbe magari essere un’evidenza ben augurante o, almeno, consolatoria, cioè che Roma sia “una città che sta in piedi da più di duemila anni”.

Ennio Flaiano, nel 1956, confidava al suo Diario Notturno di meravigliarsi “non di quanto gli antichi abitanti hanno potuto costruire, ma di quanto i loro indegni eredi hanno saputo distruggere”, con un riferimento neppure troppo velato alla corruzione – “il cittadino non perde occasione per rendersi felice e agevolare, dietro compenso, la felicità altrui” –, reso comunque esplicito, là dove viene riferita la frase icastica con la quale un rigido generale delle truppe occupanti la Capitale durante l’ultima guerra ne aveva stigmatizzato la più squisita natura: “come ci si corrompe bene, in questa città!”. Esclamazione che fa il paio con quella ben più famosa, che Sallustio, una ventina di secoli prima, aveva fatto pronunciare a Giugurta, mentre il re numida, partendo da Roma, si volgeva a guardare l’Urbe opulenta e corrotta: “Urbem venalem et mature perituram si emptorem invenerit” (Bellum Iugurthinum, XXXV) cioè, “Città venale destinata a perire ben presto, purché trovi un compratore”.

È ingeneroso, dunque, e forviante, attribuire tutte le colpe del degrado morale e materiale della Capitale agli “indegni eredi”, dimenticando quelle degli “antichi abitanti”. Quello delle antiche virtù dei romani è, infatti, un mito retorico, la costruzione della cui impalcatura ideologica è dovuta alla propaganda di Augusto. Si tratta di un’impalcatura ideologica, per l’appunto, non immune oltre tutto da apporti di dottrine filosofiche greche, talora contrarie all’antica tradizione romana, com’è, ad esempio, il caso del mito dell’amore per la povertà dei romani antichi, che contrasta nettamente con l’ideologia corrente nell’età repubblicana, quando la ricchezza era considerata fonte di prestigio e titolo di merito per gli uomini della classe politica dirigente. A nutrirsi di simili miti, peraltro, furono, nell’ordine, le ideologie della Rivoluzione francese, la cultura risorgimentale italiana, la cultura accademica tedesca della prima metà del Novecento, prolifica d’interminabili e noiosi saggi su fides, gravitas e altre virtù che si vorrebbero tipiche del carattere romano. E, finalmente, la propaganda fascista, che contribuì non poco a renderli fastidiosi.

La realtà è, infatti, molto diversa. Nell’antica Roma, anche prima di arrivare al Basso Impero, diventato proverbiale come regno della corruzione, il fenomeno ebbe dimensioni impressionanti, addirittura superiori a quelle dei nostri tempi, quantunque l’Italia, e questo la dice lunga, sia diventa primatista in tutta Europa, sorpassando anche Grecia e Bulgaria, nella classifica di Transparency: numerosi sono gli autori latini e greci che testimoniano i vari aspetti della corruzione politica durante la Repubblica e i primi secoli dell’Impero, corruzione legata alle strutture clientelari della società, all’esistenza di potentati personali al di fuori e al di sopra del potere legale, all’importanza e al prestigio della ricchezza come strumento indispensabile di dominio politico. Inutile dire che sono impressionanti le coincidenze col presente: associazioni paramafiose (clientela e amicizia), corruzione elettorale e brogli, concussione e peculato, bustarelle, appalti, tangenti, vendita di posti e di cariche, corruzione dei giudici, potere delle raccomandazioni.

E, visto che siamo alla vigilia del Giubileo Straordinario della Misericordia, il pensiero non può non corre a Paolo di Tarso, primo autore nella cristianità a dare l’immagine dell’avarizia. “Radix omnium malorum avaritia” (1 Tm. 6, 10) che traduco, alquanto approssimativamente, “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali”. Quel che m’interessa, comunque, non è tanto la metafora paolina in sé, quanto, piuttosto, proprio la frase latina, perché, se la Chiesa delle origini accolse l’ammonimento dell’apostolo sull’avaritia come radice di tutti i mali, in seguito usò le sue parole con senso dell’umorismo e al tempo stesso con la dovuta serietà teologica. In particolare, nei secoli IV e V, mentre si faceva sempre più opprimente la corruzione di un impero in disfacimento, i fedeli cominciarono a scrivere la frase ammonitrice verticalmente, come un acrostico, trasformandolo in una sorta di vignetta politica:

Radix (la radice)

Omnium (di tutti)

Malorum (i mali)

Avaritia (avarizia)

Povera Roma, non soltanto, potremmo dire parafrasando Flaiano, “città di liberti, di clienti e di senatori decaduti che trascinano carrette o guidano taxi conservando nella tramontata potenza un rispettabile naso”; in cui “è raro incontrar(e) un uomo libero, capace di ingenuità, di grandi entusiasmi, di profonde indignazioni”; dove “predomina nei cuori l’aridità, benché tutti siano generosi, nei cervelli la sufficienza, l’ironia sorregge gli spiriti”, ma addirittura inchiodata alla sua impronta genetica, anche nell’ammonimento del primo cristiano della storia.

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