Come il vino conserva il profumo del primo fusto, allo stesso modo l’anima porta il sigillo di una giovinezza ormai andata. Paolo Zanardi, cantautore tranchant e un cognome preso in prestito dal personaggio creato da Andrea Pazienza, ha un destino che ricalca le orme dei grandi del passato à la Piero Ciampi, poeta maledetto in un percorso da irregolare, più per norma che per vocazione, la cui grandezza risiede nelle proprie debolezze.
Pugliese di nascita ma romano d’adozione, Zanardi ha una voce inconfondibile e la predilezione per un sound smaccatamente rétro, oltreché il gusto per l’autodistruzione che sovente s’insinua tra canzoni, sogni e realtà. I testi, a volte folli, altre lucidi, sono intrisi di spietato neorealismo, mentre l’occhio fissa ambiti e situazioni eternandoli.
La prima volta che ci siamo incontrati, io e Paolo Zanardi, risale a parecchio tempo fa. Erano gli anni dell’università e non avevo la benché minima idea di chi fosse. Di primo acchito, però, pensai che si trattasse di uno squinternato. Eravamo in casa di amici, studenti fuori sede anche loro, e quella sera si festeggiava un compleanno. Occhi spiritati e capelli ritti, Zanardi, ubriaco perso, si aggirava per l’appartamento con un fiasco di vino tra le mani e chiunque gli capitasse a tiro lo infradiciava con la sua bottiglia. Io mi salvai, ma soltanto perché riuscii a mimetizzarmi sul divano. Qualche anno dopo, lo incontrai nuovamente per le strade di San Lorenzo, quartiere che si trova nel centro storico di Roma, che passeggiava assieme a Remo Remotti, poeta e attore che “è stato come un fratello – mi dice Zanardi – abbiamo lavorato insieme diversi anni, il primo disco glielo feci io, pensavo dovesse rimanere almeno una traccia sonora di questo personaggio straordinario…”.
Nel tempo Zanardi ha inciso quattro album, l’ultimo è uscito lo scorso 10 ottobre e si intitola Viaggio di ritorno, “una manciata di canzoni scritte in retromarcia, controsole e con il futuro alle spalle, un bouquet di fiori a 5 euro gettato nella tromba delle scale un attimo prima che lei aprisse la porta, il residuo, gli scarti di lavorazione di momenti preziosi…”. Dal canto mio, ho avuto modo di cambiare opinione su di lui, persino di scambiare idee con lui e di conoscerlo più a fondo. Questa è la seconda volta che lo intervisto.
Paolo, partiamo dal titolo di questo nuovo album composto da 11 brani “scritti in maniera sparsa e casuale”.
Le canzoni che lo compongono sono per me come il residuo di quello che alla fine rimane di questi anni passati intensamente. “Ma di tutto, terribile, resta un poco – come diceva un poeta – a volte un bottone, a volte un topo…”. Viaggio di Ritorno è il mio brano preferito, infatti dà il titolo al disco e lo riassume: alla mia età il viaggio ormai non può essere che di ritorno, è un rientro all’alba dopo una notte passata in giro per la città, e mi rappresenta bene.
Il brano che lo apre, C’è splendore in ogni cosa, credo che sia più alla Tom Waits che un pezzo da balera alla Piero Ciampi come mi dicevi…
C’è splendore in ogni cosa è un verso di una poetessa italiana, Mariangela Gualtieri, in cui mi sono imbattuto per caso e che si incastrava a meraviglia con la musica che avevo e con il resto del testo. È un brano idealmente dedicato a Piero Ciampi, grande passione di gioventù e al giorno in cui ascoltai un suo disco per la prima volta.
L’Arca di Noè è il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album. Il teatrino delle ombre che compare nel video è opera tua?
L’Arca di Noè è un brano nato da uno strano sogno che feci anni fa, poi dentro ci sono un sacco di cose diverse, non so bene di cosa parli nemmeno io, è il testo più “inconscio” del disco, e anche quello venuto meglio secondo me, con il mio amico Emanuele Russo ci siamo chiusi in casa tre giorni con cartoncino, teli, abat-jour e faretti colorati e bottiglie di vino e abbiamo fatto questo video un po’ amatoriale, ma efficace e originale. Per quanto riguarda il lasciare questo mondo, come direbbe Dylan Thomas, perché pagare l’orco due volte? Lo lascerò come tutti, quando sarà il momento…
Romeo e Giulietta è una storia d’amore dei nostri tempi. Lei ha gli occhi a mandorla, lui i denti d’oro e a quanto pare è una situazione che un po’ ti sorprende: com’è la Roma che tu vivi?
Romeo e Giulietta parla di quando vivevo a fianco di un laboratorio tessile di cinesi, ci divideva un tramezzo e la mia vita era un inferno, non smettevano mai di lavorare, tremava tutto a qualsiasi ora, il mio amico Andrea Rivera mi telefonava per rigirare il coltello nella piaga e diceva che dovevo scriverci una canzone, alla fine l’ho scritta ma ho trasfigurato tutto.
Ospedale Militare è un pezzo alla Franz Ferdinand. Ti piace la musica proveniente da oltremanica e da oltreoceano?
I miei ascolti di musica anglo-americana sono praticamente fermi a vent’anni fa, non mi sembra che ci sia stato molto, a parte il rap. Credo che la musica del futuro, ammesso che ci sia una musica e un futuro, verranno da altre parti, soprattutto dall’Africa, come è sempre stato. La storia che racconto in questo brano è quella della mia visita di leva assieme a un travestito a Bari nell’86, finimmo entrambi all’ospedale militare…
Roulette russa è un brano Alt Country, e sono belle le atmosfere che riesci a creare. Il bisogno di sentirsi vivi lo si soddisfa solo rischiando la propria pelle?
Roulette Russa è stata banalmente ispirata dal film Il Cacciatore, ed è una canzone che dedico sempre al pubblico, ormai suicidatosi da tempo…
Piccola Marilyn è per una sorella che non si vorrebbe avere mai. Per chi l’hai scritta?
Piccola Marilyn l’ho scritta per tutte le ragazze che vanno in giro con il cartellino del prezzo appiccicato addosso, pensando alla diva americana sacrificata alla catena di montaggio hollywoodiana, come disse qualcuno..
Il commento che hai scritto per il brano che segue, Per i tuoi piedi te l’hanno persino censurato.
E’ vero, eppure descrivevo solo un fantastico risveglio dopo i bagordi della notte precedente, in uno spazio senza tempo, in un’atmosfera ovattata dentro la quale ci si sente protetti e cullati.
E infatti il disco viene chiuso da una Ninna nanna.
Già, è una ninna nanna scritta per una bambina che voleva sentirmi suonare ma fu costretta ad andar via perché si era fatto troppo tardi, come sempre…