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Il sostentamento dei partiti è argomento sempre attuale. A un anno e mezzo circa dall’emanazione della legge n. 13/2014, che ne abolì il finanziamento pubblico diretto, sembra quindi necessario verificare se i meccanismi su cui il nuovo sistema è fondato siano idonei ad assicurarne il buon funzionamento. La legge citata ridusse – senza eliminare – le erogazioni statali, anche nell’intento di rendere quelle private ulteriore canale di partecipazione alla politica e manifestazione di consenso, al fine di rafforzare i partiti come “veicolo di articolazione, aggregazione e rappresentanza di interessi”.

Tale fine avrebbe richiesto un sistema di finanziamento passibile di controllo concreto da parte di coloro che lo sostanziano mediante i propri apporti, funzionale a preservare il processo decisionale democratico dal rischio di condizionamenti: vale a dire, un sistema davvero trasparente. Se si considera che nel 1974 i sussidi statali alla politica vennero introdotti allo scopo di contrastare fenomeni corruttivi e conflitti d’interesse ingenerati da elargizioni private, a maggior ragione si comprende l’importanza di una disclosure adeguata. Peraltro, nel marzo 2012 il Groupe d’Etats contre la corruption (Greco) aveva raccomandato all’Italia la “piena trasparenza del finanziamento dei partiti”: la legge n. 13/2014, tuttavia, non pare realizzarla compiutamente.

Innanzitutto, non è prevista la pubblicità per gli apporti inferiori a cinquemila euro annui, ma non sono chiari i motivi per cui tale limite sia stato posto né i criteri in base ai quali lo si sia determinato. E’ stabilito un ammontare massimo per le erogazioni private, al fine di evitare che possano influenzare in modo rilevante il partito ricevente (“solo con tetti alle donazioni si chiude la bocca a quelli che paventano lo strapotere dei più ricchi”): ma tale ammontare può essere – di fatto e in modo opaco – superato, poiché nessun tetto è posto alle elargizioni verso singoli membri di Governo o Parlamento; nonché moltiplicato indefinitamente, costituendo una serie di società donanti o avvalendosi di fondazioni, alle quali non è imposta alcuna rendicontazione pubblica dei finanziamenti.

L’obbligo di trasmettere alla Presidenza della Camera, per la pubblicazione sul relativo sito, l’elenco degli erogatori di somme superiori a cinquemila euro, nonché statuti e rendiconti, è imposto esclusivamente ai partiti che, in possesso di determinati requisiti, siano iscritti in un Registro nazionale e, pertanto, ammessi a godere dei benefici economici disposti dalla legge: quindi, basta rinunciare a questi ultimi per sottrarsi alla trasparenza a essi correlata. Un’apposita Commissione accerta l’ottemperanza agli obblighi della legge in discorso, trasmettendo annualmente ai presidenti delle Camere l’elenco dei partiti che li hanno o meno assolti: tale elenco, tuttavia, non è soggetto ad alcuna pubblicità, né quindi all’eventuale sanzione “sociale” conseguente.

Infine, a conferma che la trasparenza ex l. n. 13/2014 è di mera facciata, è previsto che chi eroghi meno di centomila euro annui viene reso noto solo se consenziente: il donatore, quindi, resta occulto se non presta il proprio consenso, come confermato dall’Autorità garante. L’interesse pubblico alla conoscenza dei finanziatori viene così sacrificato all’esigenza di riservatezza di chi elargisca somme anche ingenti, potenzialmente idonee a condizionare i decisori. Non si è considerato che la trasparenza rappresenta il presupposto per quel controllo diffuso che, come detto, è essenziale per un sistema di sostentamento in prevalenza privato; né che essa rende “più difficile” influenzare i decisori politici. Il legislatore ha forse reputato che la full disclosure avrebbe frenato il conferimento di risorse ai partiti e, quindi, che la tutela della segretezza l’avrebbe incentivata. Un sistema opaco non favorisce di certo la credibilità di cui i partiti godono presso l’elettorato.

A ciò concorrono anche altri aspetti attinenti alla malintesa e poco trasparente “abolizione” dei finanziamenti: ad esempio, i gruppi parlamentari continuano a essere comunque sussidiati (art. 15 del reg. Camera dei Deputati e art. 16 del reg. del Senato); la c.d. legge di stabilità 2015 ha ricompreso tra le erogazioni “liberali” e le donazioni ai partiti anche i contributi che per statuto i politici devono versare alle casse delle formazioni di appartenenza, con una detrazione d’imposta del 26% a carico, comunque, sull’erario. Si aggiunga, infine, la legge da poco approvata, che consente ai partiti di acquisire i finanziamenti pubblici anche in assenza della certificazione dei loro bilanci. Questa legge sarebbe stata emanata al fine di trovare una soluzione urgente all’impossibilità di verifica della Commissione sopra citata, che avrebbe reso noto tale circostanza con ritardo. Ma già il 18 maggio 2015 la Commissione aveva notificato ai Presidenti di Camera e Senato “l’impossibilità di procedere al controllo dei rendiconti con le risorse assegnate”, ribadendo peraltro quanto già comunicato diversi mesi prima da altri suoi componenti, poi dimessisi per la stessa causa: vale a dire la carenza del personale necessario a espletare i compiti previsti.

Dal quadro delineato appaiono palesi, ancora una volta, le contraddizioni che caratterizzano la politica italiana. Una certa coerenza, oltre che un’effettiva trasparenza, gioverebbe di certo alla credibilità dell’intero sistema nazionale.

Vitalba Azzollini per @SpazioEconomia

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