Da un paio d’anni, quasi in sordina al di fuori degli ambienti più specializzati, Ibm sta mettendo a punto un supercomputer chiamato Watson, capace di raffinate analisi logiche su dati diversi, anche non numerici. Una delle applicazioni di Watson è il supporto alla diagnostica medica: pare che in alcuni campi quali l’oncologia le predizioni probabilistiche di Watson siano particolarmente accurate.
Sul fatto che un computer possa trattare i dati statistici e fare predizioni probabilistiche meglio di un essere umano non possono esserci dubbi: l’essere umano non è tanto portato per il ragionamento statistico, che in genere appare controintuitivo. In questo senso Watson potrebbe diventare un aiuto diagnostico prezioso, uno strumento di consultazione del medico, molto più efficace di trattati e riviste. Watson, ovviamente, non è e non sarà mai un medico; il suo limite è di essere disumanizzante. Infatti il dato rilevante alla diagnosi si raccoglie nel contesto del rapporto medico-paziente e il paziente non racconterebbe a Watson la sua anamnesi come la racconterebbe ad un medico di sua fiducia. Per questo un computer non può sostituire un medico; al massimo affiancarlo. Per il momento Watson è ancora uno strumento semi-sperimentale, tanto più che appartiene a quella schiera di “sistemi esperti” che migliorano il proprio funzionamento con l’uso e richiedono quindi lunghi periodi di apprendistato.
L’aspetto più interessante di Watson però non è quello tecnico: in effetti già esistono addirittura delle applicazioni per lo smartphone che dovrebbero aiutare il medico nella diagnosi o almeno fornirgli spunti di riflessione e di esercizio. Watson ci pone di fronte al dilemma logico-filosofico per cui una macchina capace di apprendere finisce per essere capace di ragionare, almeno in alcuni campi; ovvero arriva ad occupare una parte di quel campo di competenze che di solito noi riteniamo esclusiva proprietà egli esseri umani. La questione si era già posta molti anni fa, quando l’Ibm Deep Blue aveva battuto a scacchi il campione del mondo Garry Kasparov; ma gli scacchi sono in fondo un gioco a regole definite, che un computer di sufficiente potenza può utilizzare; la diagnostica medica è invece un problema privo di regole esatte e in fondo di ampiezza non limitata che sembrava molto al di là delle possibilità di una macchina. Una ricaduta importante delle macchine come Deep Blue e Watson sta nel fatto che noi sappiamo come ragionano (le abbiamo create noi) e possono suggerirci qualcosa su come ragioniamo noi, un problema per ora irrisolto.
L’ultimo aspetto da considerare è relativo ai costi: per ora Watson è un oggetto unico e non è facile immaginare cosa costerebbe produrne e renderne disponibile un numero sufficiente a soddisfare tutte le possibili richieste di consulenza. D’altra parte la macchina è veloce, e anche da sola può dare retta a molte richieste, e i prezzi scendono se l’oggetto viene moltiplicato; di fatto l’elettronica, hardware e software, è una categoria commerciale nella quale le prestazioni salgono molto in fretta mentre i costi scendono e non è affatto impensabile che un domani si possa arrivare ad uno Watson per ogni ospedale o addirittura ad un personal Watson portatile per ogni medico. Il vantaggio nell’uso di un consulente elettronico sarebbe molto grande sia per l’accuratezza delle diagnosi e delle terapie, sia per le implicazioni medico-legali, nelle quali l’uso del consulente elettronico diventerebbe elemento di buona prassi.