Foto: @Giuseppe Chiantera/Ulixes Pictures
Dal confine ungherese ci spostiamo a quello serbo attraversando le campagne della Slavonia. Passiamo per Vukovar. Una grande bandiera croata sventola sulla torre dell’acquedotto che porta i segni dei violenti combattimenti di ventiquattro anni fa. I fori dei proiettili su molte delle abitazioni della città sono ancora lì. E riaffiora alla memoria l’assedio, durato quasi tre mesi, a cui furono costretti gli abitanti. I crimini di guerra. La pulizia etnica. Seguiamo il Danubio e dopo neanche venti chilometri arriviamo a Opatovac, il campo dei migranti in transito, in arrivo dalla Serbia e diretti in Ungheria, allestito dall’esercito e gestito dal Ministero dell’Interno. All’entrata ci aspetta Iva Marčetić del Center for Peace Studies che da giorni lavora senza sosta al coordinamento degli aiuti umanitari insieme a tante altre organizzazioni, locali e internazionali. Come tanti altri giovani, Iva è impegnata giorno e notte nel fornire informazioni ai migranti in arrivo, spiegando loro, attraverso interpreti volontari, la procedura di entrata e uscita dal paese. Fa parte di quell’anello fondamentale della società civile che lega migranti e autorità, rassicurando i primi e facilitando le operazioni alle seconde. Insieme ad altre organizzazioni locali sta lavorando alla creazione di una piattaforma in grado di promuovere azioni politiche mirate al cambiamento della narrazione dominante che circonda il fenomeno migratorio in Europa e, in particolare, lungo la rotta balcanica. Per accedere al campo è necessario l’accredito e un badge identificativo. Andiamo alla tenda dove si chiede l’accredito, ma la polizia ci dice che se stiamo con Iva possiamo entrare senza problemi. L’area perimetrale è delimitata da barriere sorvegliate dalla polizia. Iva ci spiega che quando è iniziata “l’emergenza” il governo ha deciso di allestire il campo in questa zona per la sua vicinanza a Bapska, punto di accesso dei migranti in arrivo dalla Serbia, “frontiera informale” normalmente chiusa ed eccezionalmente riaperta nelle ultime settimane per favorire il corridoio umanitario. Le persone attraversano il confine a piedi e, una volta a Bapska, vengono caricate sui pullman e trasportate per quattordici chilometri, fino a Opatovac. E’ stato scelto questo terreno perché è pubblico. Precedentemente, qui, c’era un oleodotto jugoslavo per lo stoccaggio del petrolio. A testimoniarlo, le tubature di metallo fuori uso, tuttora presenti, che si alternano alle tende militari. L’improvviso cambio di destinazione dell’area sta creando non pochi problemi: con l’arrivo delle piogge autunnali, il terreno non riesce ad assorbire l’acqua piovana e il campo diventa impraticabile. Una situazione che anche le autorità croate non ritengono dignitosa per chi viene ricevuto, seppur in transito. Al momento si sta cercando di tamponare la situazione montando velocemente delle tavole di legno come pavimentazione temporanea. Ma con il rigido inverno alle porte, il Ministero dell’Interno sta già individuando una nuova area dotata di strutture ed edifici in grado di ospitare chi arriverà con la prima neve. Mentre chiediamo a Iva il funzionamento di questo “refugee camp”, Iva mi interrompe e precisa “it’s a transit camp”. Più tardi, parlando con volontari locali, abitanti della zona, Croce Rossa croata e poliziotti, scopriremo che la parola “transito” non è affatto secondaria, ma centrale. Tutti sottolineano la funzione esclusivamente di “passaggio”, di “attraversamento” di queste terre. Iva ci mostra il punto esatto in cui i pullman, carichi di persone esauste dopo il lungo viaggio a piedi dalla Grecia, si fermano uno ad uno all’entrata del campo. “Two by two! Two by Two!” gridano incessantemente i poliziotti senza neanche troppi complimenti. Ogni tanto qualcuno viene strattonato. I migranti che scendono dai pullman devono mettersi in fila per due, sistemandosi ordinatamente sotto due larghi tendoni verdi allestiti dall’esercito. All’interno di ciascuna tenda ci sono delle transenne che formano, in tutto, quattro corsie. Qui si aspetta il turno per accedere al tendone per la registrazione e, per chi vuole, fare domanda d’asilo. Ma nessuno vuole chiedere asilo, vogliono andare tutti in Germania. Durante l’attesa i volontari distribuiscono acqua e cibo e accertano che non ci siano casi urgenti che richiedano l’immediato intervento dei medici della Croce Rossa. La registrazione consiste nel fornire le proprie generalità e passare per il foto-segnalamento. In Croazia non si prendono le impronte digitali. A volte, subito dopo la registrazione, vengono fatti risalire sui pullman e portati immediatamente alla stazione ferroviaria dei treni diretti a Botovo, al confine con l’Ungheria. Altre volte, invece, alla registrazione segue la sistemazione temporanea nelle tende allestite nel campo. “Possono stare al massimo ventiquattro ore, perché questo è un campo di transito”. Ribadisce, ancora una volta, Iva. Da cosa dipende questo intervallo di tempo? “Se le autorità croate sanno che stanno arrivando altre migliaia di persone cercano di velocizzare tutte le procedure perché questo campo può ospitare fino a un massimo di 5,000 persone”. In media, il numero delle persone che transitano per il campo ogni giorno oscilla tra 5,000 e 6,000. “Ho 33 anni. Abito a Zagabria” inizia a raccontare Iva mentre camminiamo nel campo. “Non so se le persone che oggi stanno attraversando questi territori stiano percorrendo esattamente le stesse vie di fuga che i croati percorrevano venticinque anni fa. Così in Serbia. Ma vi posso dire che l’arrivo di queste persone ha risvegliato le nostre memorie. L’esser stati profughi in epoche recenti certamente aiuta la spinta solidale nei confronti di chi arriva. Tuttavia, la memoria può provocare come reazione uno slancio iniziale dato dall’emozione. Invece c’è bisogno di un elemento in grado di innescare dinamiche di accoglienza sul lungo periodo. Quanto si sta muovendo nelle coscienze della maggior parte dei croati non può essere facilmente tradotto attraverso una similitudine con quanto successo a noi. Questa gente arriva da luoghi estremamente lontani e spesso è portatrice di culture profondamente diverse in cui molti stentano a riconoscersi. Per questo stiamo lavorando molto sulla conoscenza di chi arriva per combattere il pregiudizio dato dalla paura del diverso, dell’Altro che arriva con l’unico scopo dell’invasione. Qui in Croazia abbiamo un’opposizione molto conservatrice e di estrema destra che porta avanti la sua costante campagna di propaganda fatta di slogan come “Stanno arrivando i terroristi”. Se questa “crisi” durerà a lungo, e credo che durerà a lungo, le persone potrebbero esser costrette a rimanere qui. E allora ci saranno altre fattori da affrontare, come l’integrazione. E non penso che l’Islam, la religione della maggior parte di queste persone, costituisca un problema. Storicamente la regione ha avuto una forte presenza dei musulmani. Penso, invece, che siano la propaganda politica e la paura irrazionale a costruire il problema”. Racconto a Iva la conversazione avuta la sera prima, quando il mio interlocutore mi ha detto come i croati siano rimasti a combattere, a difendere la propria terra e le proprie case, al contrario dei siriani che stanno scappando. “Ecco: è questa la propaganda di cui ti parlavo”. Chi arriva al campo di Opatovac spesso non ha neanche il tempo di sedersi. Spesso, non vuole neanche riposarsi un attimo. L’unico scopo è arrivare il prima possibile in Germania. Prima che l’Ungheria ci ripensi e chiuda la frontiera, costringendo questo flusso di persone in marcia a rimodellare, ancora una volta, il proprio percorso. Percorso capace di un costante riadattamento ad ogni nuova e inutile barriera eretta irrazionalmente dalla Fortezza Europa. A prima vista il campo, con le sue tende piantate direttamente nel terreno e le alte transenne che dividono le aree e le persone per nazionalità e provenienza, fa pensare alle stalle per il bestiame. In realtà ci spiegano che la divisione serve a evitare la nascita di conflitti. Perché la gente che arriva è stanca. E in un attimo, anche la più piccola stupidaggine, può trasformarsi in una lite di difficile gestione. Ogni tanto, qua e là, i bagni chimici. L’odore acre penetra nelle narici. Davanti ai nostri occhi c’è un’umanità in viaggio. Appena sbarcata. Stanca ma, al tempo stesso, profondamente vitale. Colpiscono i bambini ben vestiti. Gli uomini con la camicia, le donne che cercano di sistemarsi i capelli o, per chi lo porta, il velo. Colpiscono quei fazzoletti che cercano di togliere il fango dalle proprie scarpe, dal viso di un figlio che, pure in quella situazione, non smette di giocare. Di ridere. Di strappare un sorriso anche al poliziotto più ferreo. E’ la dignità che troppo spesso non viene raccontata. Più giù vediamo degli operatori della Croce Rossa che iniziano a far uscire le persone dalle tende. Le rimettono in fila per due. Mi avvicino a una famiglia di siriani. Mi sorridono. Mi dicono che vengono da Aleppo. Un altro gruppo, invece, da Damasco. E’ difficile parlare con “i transitanti”: non c’è tempo durante il transito. E poi la sorpresa. “Siamo di Teheran”. Iran? Perché? “Perché la via è aperta, vivere in Iran è insostenibile e anche noi vogliamo andare in Germania”. “Two by Two! Two by Two!” e si reimmettono in una lunga serpentina verso i pullman che li porteranno nella vicina stazione di Tovarnik. Io e Giuseppe decidiamo di seguirli. Continua