La onlus che gestisce strutture ospedaliere in tutta Italia anticipa la riforma della contrattazione del governo Renzi. E, secondo le sigle sindacali, ha intenzione di aumentare l'orario di lavoro dei 3.500 dipendenti da 36 a 38 ore settimanali senza aumentare gli stipendi
Tira una pessima aria per il contratto nazionale di lavoro. Mentre il governo si prepara a riformare la contrattazione, depotenziando il sistema nazionale e puntando tutto sugli accordi decentrati, c’è chi si muove in anticipo ma perfettamente in linea con il premier Matteo Renzi. La fondazione Don Gnocchi, che conta circa 60 strutture ospedaliere e centri ambulatoriali in tutta Italia, ha deciso di abbandonare il contratto nazionale a partire dal prossimo 6 dicembre. “L’idea è quella che sta dominando sulla scena nazionale, cioè che si può aprire una stagione contrattuale al ribasso – commenta Cecilia Taranto, segretaria nazionale Fp Cgil – C’è una fortissima sintonia con il modello Marchionne“.
La contesa tra azienda e sigle sindacali si è aperta lo scorso 6 ottobre, nelle stesse ore in cui il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi dichiarava fallita la trattativa con i sindacati sul tema della contrattazione. In quella data la fondazione Don Gnocchi, che conta circa 3.500 dipendenti, ha inviato alle organizzazioni dei lavoratori una lettera dall’oggetto eloquente: “Disdetta contratto collettivo nazionale di lavoro”. Nel documento, l’azienda giustificava così la scelta: “Le attuali previsioni contrattuali comportano per la nostra fondazione l’onere di sopportare costi incompatibili con le odierne condizioni di mercato e, oltre tutto, di gran lunga più elevati rispetto a quelli sostenuti da altri enti”. Il bilancio 2014 parla di una perdita di 544mila euro, in netto calo rispetto ai 9,8 milioni dell’anno precedente. Anche se l’esposizione debitoria risulta pari a 236 milioni di euro, a fronte di 275 milioni di fatturato. La voce “costo del personale”, invece, si attesta a quota 133 milioni.
Ma cosa implica la fuoriuscita della fondazione dal contratto nazionale? Secondo le sigle sindacali, la società ha intenzione di aumentare l’orario di lavoro dei dipendenti, da 36 a 38 ore settimanali, senza incrementare lo stipendio. “La dirigenza pensa di uscire dalla crisi abbattendo i diritti dei dipendenti e intervenendo sempre e solo sul costo del lavoro – commenta la sindacalista Cgil – Ma i lavoratori hanno già dato. In passato abbiamo firmato accordi di crisi a livello territoriale, dando disponibilità all’aumento degli orari di lavoro. E gli stipendi, di fatto, sono bloccati ai livelli del 2009″.
Già, perché le difficoltà finanziarie della fondazione, come del resto l’intenzione di lasciare il contratto nazionale, non sono certo una novità. Nel marzo 2013, la società aveva già annunciato questa decisione, salvo poi trovare un accordo con i sindacati e sospendere l’operazione. Ma “sulla questione relativa alla contrattazione collettiva da applicare in azienda non abbiamo raggiunto un’intesa”, scrive la società. E così l’azienda ha ripreso la strada lasciata in sospeso, avviandosi verso l’uscita dal contratto nazionale. I sindacati Fp Cgil, Fp Cisl e Uil Fpl hanno parlato di una “inaccettabile presa di posizione” e hanno proclamato lo stato di agitazione del personale: il prossimo 21 ottobre si terranno assemblee e presidi nelle varie sedi in Italia. Dalla fondazione, contattata da ilfattoquotidiano.it, per ora preferiscono non commentare, ma nei prossimi giorni diffonderanno un comunicato.