“Se c’è qualcuno in Europa che può salvare l’euro, è la Germania, ma solo se è disposta a cambiare se stessa. La ricetta dell’austerità e delle esportazioni non può funzionare per tutti. Se non si capisce questo, il destino dell’euro è segnato”. Heiner Flassbeck è un economista che insegna all’università di Amburgo. Una voce spesso controcorrente nel dibattito pubblico, come dimostra il suo ultimo lavoro Solo la Germania può salvare l’euro, scritto in coppia con un altro economista, Costas Lapavitsas, e presentato mercoledì alla Fiera del libro di Francoforte. Le sue tesi entrano in conflitto con quelle di molti suoi colleghi convinti che i malanni della moneta unica dipendano esclusivamente dall’indisponibilità dei Paesi debitori a fare le riforme “giuste”. Sul modello tedesco, per intendersi. Flassbeck sostiene invece che l’enorme potere economico accumulato negli ultimi anni dai tedeschi sia in gran parte dovuto alla riduzione dei salari avvenuta in Germania, un fenomeno forse poco osservato all’estero. Applicate ai paesi con un grande debito sulle spalle, le stesse ricette di tagli e abbassamento del costo del lavoro hanno, però, innescato una spirale di recessione. Si veda il caso della Grecia.
“E’ pericoloso non rendersi conto delle conseguenze delle politiche di austerità. Non mi riferisco solo alla Grecia, ma anche a Spagna, Italia e Francia. Questi Paesi non possono permettersi di rimanere per anni nella stagnazione. Se non si cambiano politiche, prima o poi in questi Paesi arriveranno al governo forze nazionaliste e di destra. I segnali politici sono visibili sin da ora. Stanno crescendo partiti antieuropeisti che dicono “o si cambia o usciamo dall’euro”. Nel 2017 si voterà per le presidenziali in Francia e, nel 2018, andrà alle urne l’Italia. Due appuntamenti importanti per il futuro dell’Unione europea”.
Altre voci nel panorama degli economisti tedeschi, per esempio quella di Hans-Werner Sinn, anche lui alla Buchmesse di Francoforte con il suo libro L’euro, puntano invece il dito contro la riluttanza di greci, italiani e francesi a fare in casa loro le stesse riforme del mercato del lavoro realizzate dai tedeschi. A tutti è noto che l’economia tedesca è cresciuta in questi anni soprattutto per la sua capacità di competere sul mercato con gli altri paesi. Solo lo scorso anno, per citare un dato, le esportazioni hanno fruttato alla Germania un avanzo negli scambi commerciali con l’estero pari a 217 miliardi di euro. Il segreto di questo successo non può però essere attribuito soltanto all’innovazione tecnologica dei suoi prodotti, anche lasciando da parte l’ironia sul mito della perfezione teutonica infranto dallo scandalo Volkswagen. La causa va cercata piuttosto nella decrescita dei salari tedeschi. Fin dagli anni novanta la Germania ha iniziato a decentralizzare il suo sistema di relazioni industriali, trasferendo la contrattazione del lavoro dal livello nazionale collettivo a quello aziendale. Gli accordi in deroga sono aumentati strada facendo.
A questo si è aggiunta anche la riforma Agenda 2010, voluta dieci anni fa per ironia della sorte proprio dall’ultimo cancelliere socialdemocratico, Gerhard Schroeder. Il risultato è che il costo unitario del lavoro è sceso in Germania più che altrove, a beneficio della produttività e dei prezzi delle merci tedesche che sono diventate più convenienti. “La Germania, in questo modo, ha praticamente esportato la disoccupazione negli altri Paesi”, dice ancora Flassbeck.
Come se ne esce allora? Anche i francesi e gli italiani devono seguire la stessa strada? Ciascuno deve farsi il proprio Jobs act in casa? “Chi ha applicato lo stesso modello ha fallito. L’hanno fatto in Spagna, i salari sono scesi drasticamente e, per giunta, la disoccupazione è cresciuta”. Inoltre, non è immaginabile una crescita simultanea di tutti i paesi fondata sulle esportazioni. “Non può esistere al mondo una situazione in cui ogni paese realizza un surplus commerciale”. A ogni avanzo deve corrispondere un disavanzo, “non può esistere un credito senza un debito, a meno che tutti i paesi della Terra non trovino un partner su un altro pianeta con cui commerciare e sul quale scaricare il debito”. Anche “quel che racconta la Merkel, che la Germania avrebbe raggiunto una crescita senza debito, è una falsità. Nessuno dice che la crescita tedesca si basa sul fatto che altri paesi si siano dovuti indebitare per importare merci tedesche”. Senza contare che la Germania esporta paradossalmente gratis almeno un terzo dei beni e servizi che produce, vale a dire “senza ricevere un corrispettivo in beni equivalenti”. Il credito che i tedeschi vantano nei confronti degli altri paesi è un “credito puramente nominale” che va ad aggiungersi al debito esistente degli altri stati della zona euro.
Chi ha provato a cambiare strada, però, ha fallito. Il riferimento è alla Grecia di Tsipras che, alla fine, si è dovuta piegare alle condizioni di Merkel e del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. “Ho avuto modo di parlare con Varoufakis. Gliel’ho detto, tu, ministro di un governo di estrema sinistra, pensi di andare da Schäuble e di convincerlo a cambiare le regole? Non succederà mai. O hai un piano B che ti permetta di trattare oppure devi trovare alleati per la tua proposta politica. Ma non puoi pensare di cambiare le cose senza averne la forza”. Dovrebbe quindi essere la Germania stessa a salvare l’euro. “E’ il Paese che ha la produttività più alta, l’unico che può permettersi di aumentare i salari e far crescere la domanda. Altrimenti non c’è speranza di superare la crisi. Le altre vie sono state già sperimentate e sono fallite. Il costo del denaro è vicino allo zero, ma gli investimenti non partono. E’ ora di cambiare”.