studenti erasmus

Non molto tempo fa, durante un incontro pubblico per la presentazione di un libro, un professore universitario in visita mi disse che “l’Erasmus, alla fine, non è altro che un’esperienza per imparare una nuova lingua e farsi qualche s*****a in più” [cit.]. Nonostante fosse stata pronunciata davanti a un pubblico e con me seduto accanto al docente in questione al tavolo dei relatori, mi limitai ad un’alzata di sopracciglia liquidando la frase come una battuta non esattamente delle più brillanti.

Perché ricordare questo episodio? Perché al di là di molti articoli in stile BuzzFeed sull’argomento, spesso è questa la percezione che si ha in Italia del periodo di studi all’estero: puro divertimento, perdita di tempo, infruttuosità. A smentire questi luoghi comuni arriva, ancora una volta, un interessante rapporto della Commissione europea sugli effetti della mobilità su abilità ed employability degli studenti universitari che hanno trascorso almeno un semestre di studi in un’università europea diversa da quella di immatricolazione.

L’Erasmus è senza dubbio uno dei programmi di maggiore successo del progetto europeo. Dall’anno della sua nascita (1987, nda), più di tre milioni di persone hanno scelto di partire per studiare o insegnare all’estero, tornando in patria con un bagaglio di conoscenze e abilità che difficilmente avrebbero potuto acquisire in altro modo. Conoscenze tornate molto utili: sulla disoccupazione di medio e lungo termine, gli studenti Erasmus hanno la metà delle possibilità di rimanere senza lavoro rispetto a chi non parte; la proiezione su cinque anni dal conseguimento della laurea è anche più significativa, mostrando una differenza di circa il 23% a favore degli studenti Erasmus sui loro ex compagni di università che hanno scelto di rimanere in patria.

I dati fanno riflettere, in particolar modo se messi a sistema con quelli sugli occupati per gruppi di età in Italia: nei quindici anni dal 2000 al 2014, l’unica fascia ad essersi assottigliata – e di percentuali che rasentano la metà netta della porzione originale (-8,4%) – è quella dei giovani tra i 20 e 30 anni, passata dal 20% del 2000 all’11,6% del 2014. I giovani non lavorano perché studiano? Non sembra, esaminando i dati del Ministero dell’Istruzione, che evidenziano un calo costante delle immatricolazioni nelle università italiane.

Chi parte in Erasmus, quindi, non solo ha più possibilità di trovare lavoro (e più facilmente), ma anche di operare in un ambiente internazionale. Il 69% dei laureati che hanno trascorso almeno un semestre all’estero è impiegato in un contesto lavorativo internazionale, superando di 5 punti percentuali chi ha deciso di restare a casa. Ciò è dovuto, come conferma il rapporto della Commissione europea, anche agli effetti che l’Erasmus genera sulla crescita personale dell’individuo. Stabilendo come voci dell’analisi la capacità di prendere decisioni, la conoscenza di/fiducia in se stessi, la curiosità, l’apertura mentale e l’abilità nel risolvere problemi, in una scala da 1 a 10 si registrano aumenti in ognuno degli indicatori presi in esame.

E ciò non può che giovare all’apprezzamento nei confronti dell’Europa (attenzione a distinguere bene ‘Europa’ e ‘politiche delle istituzioni europee’). La generazione Erasmus è la prima generazione veramente europea: nel definire i legami con la propria città, il proprio paese e l’Europa, quest’ultima viene scavalcata dalle altre due voci tra i non-Erasmus; tra coloro che sono partiti, invece, il senso di appartenenza all’Europa stacca nettamente (rispettivamente di 10 e 8 punti percentuali) il legame con città e paese d’origine. Si sbaglia chi ritiene che un dato simile significhi rinnegare le proprie radici: sentirsi europei non vuol dire tagliare i legami con la propria identità da un punto di vista etnico o culturale, ma abbracciare degli ideali e dei valori condivisi che vanno ben oltre le frontiere nazionali.

Partire è la cosa giusta, tornare sta alle aspirazioni e predisposizioni di ognuno di noi. Quello che l’esperienza personale può dire, in modo quasi complementare rispetto ai dati, è che i contatti universitari o di lavoro e gli amici estoni, scozzesi, francesi e finlandesi che ho lasciato nei posti in cui ho trascorso un semestre di studi sono ancora lì, e so che ci sono. Si discute, ci si confronta, si prende atto delle differenze che ci possono essere nella visione del mondo, ma nulla di tutto questo può rappresentare un ostacolo alla condivisione di esperienze di vita e valori che, ove non siano già comuni, si riesce a costruire insieme. L’Europa dei prossimi anni, oltre che dalle decisioni delle istituzioni comunitarie, dipende anche da questo. Come la generazione Erasmus riuscirà a cambiare l’Europa del 2015 si vedrà nei prossimi dieci o quindici anni, ma solidarietà e integrazione, di certo, sono ottime basi da cui partire.

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