Il suo recente addio al Corriere della Sera (e alla critica musicale) ha fatto molto discutere gli addetti ai lavori. Ma Paolo Isotta, spirito irregolare, impossibile da irreggimentare o incasellare, non si scompone più di tanto, abituato com’è a dire e scrivere sempre quello che pensa. Nell’ultimo articolo scritto per il quotidiano di via Solferino, molti hanno notato una non casuale dimenticanza: tra i direttori ringraziati, manca quello attuale, Luciano Fontana. E proprio sul successore di Ferruccio De Bortoli, Isotta non lascia spazio a interpretazioni e fraintendimenti: “Si tratta di un soggetto così scadente sotto ogni profilo che persino il non nominarlo è fargli onore”. Ma la chiacchierata con il colto e brillante giornalista napoletano è anche l’occasione per fare il punto sul mondo della musica classica e sui progetti futuri di un uomo che, a 65 anni e dopo aver trascorso quattro decadi nei panni prestigiosi del critico musicale, oggi ha deciso di ricominciare come scrittore.
Dopo oltre quarant’anni, ha deciso di lasciare la critica musicale. Che mondo della musica classica ha incontrato agli inizi e come è diventato oggi?
Quando ho incominciato a lavorare erano vivi, fra i direttori d’orchestra, Herbert von Karajan, Gunther Wand, Sergiu Celibidache, Giuseppe Patanè, Oliviero de Fabritiis, Franco Mannino, Lamberto Gardelli, Heinrich Hollreiser, Leonard Bernstein, Georg Solti. James Levine era appena apparso quale fenomeno: ora la malattia gli ha ridotto assai l’attività, sebbene eroicamente resista. Fra i cantanti, Mario Del Monaco, Montserrat Caballé – che per fortuna è sempre con noi, ma si è ritirata – , Joan Sutherland. In piena attività era il mio amico Bonaldo Giaiotti, il più grande basso dal dopoguerra a oggi, superiore persino a Mammasantissima come Boris Christoff e Nicolai Ghiaurov. Fra i pianisti erano in carriera Claudio Arrau e Franco Mannino, i due più grandi del Novecento; e poi Emil Gilels, Sviatoslav Richter, Alexis Weissenberg, Van Cliburn, György Cziffra, Alicia de Larrocha, Arturo Benedetti Michelangeli. Era vivo – morì tragicamente, trentatreenne, ad aprile 1974 – Dino Ciani, un angelo benedetto da Dio che sarebbe stato un secondo Mannino. Adesso i direttori d’orchestra sono soggetti che t’ispirano sentimento di riso insieme e pietà: Gustavo Dudamel, Diego Matheuz, Andrea Battistoni, Gianandrea Noseda. E pensi che in tutti i miei ultimi anni ho dovuto assistere alle invereconde marchette che a costoro fanno le pagine degli Spettacoli dei quotidiani…
Non salva nessuno?
Vi sono bravi ragazzi, certo, ma non bastano a riempire il vuoto. Impavido è Riccardo Muti. Tuttavia negli ultimi anni il grande napoletano si è fossilizzato nel repertorio e, nella scelta degl’interpreti che invita a Chicago – è il direttore della più grande orchestra del mondo – s’ispira a criteri che, a voler essere benevoli, sono difficili da comprendere. Nel canto, Dio liberi. Quanto al pianoforte, posso dire che vi sono alcuni giganti, da Arcadij Volodos a Grigorij Sokolov a Krystian Zimerman. Ma se vengono presi sul serio casi scandalosi come un certo Allevi… E c’è un gran vuoto. Dico però una cosa. Come spiego nel mio ultimo libro, nel pianoforte esiste un quintetto italiano che, per valore, è paragonabile persino ai tre che adesso cito. Si tratta, in ordine decrescente di età, di Francesco Nicolosi, Vittorio Bresciani, Francesco Caramiello, Francesco Libetta, Nazzareno Carusi. I primi tre sono miei condiscepoli, proveniendo dalla scuola napoletana di Vincenzo Vitale, ben vegeto quando ho incominciato a scrivere. Dalla medesima scuola proviene anche Riccardo Muti, che infatti è un formidabile pianista – oggi molti direttori d’orchestra, incapaci di suonare il pianoforte, studiano ascoltando il cd. Ma non risulta che Muti a Chicago, condiscepoli e no, li abbia mai invitati. In conclusione, è giusto che abbia smesso: da alcuni anni ero come il ragazzo olandese che voleva turare col dito la falla della diga.
Nel breve commiato in fondo all’ultimo articolo scritto per il Corriere della Sera ha ringraziato i direttori di via Solferino con i quali ha collaborato. Ma si è fermato a De Bortoli. Come mai nessun ringraziamento a Fontana?
Si tratta di un soggetto così scadente sotto ogni profilo che persino il non nominarlo è fargli onore.
“La musica di oggi? E’ giusto smettere: ormai ero il ragazzo olandese che voleva turare col dito la falla della diga”
Il suo ultimo libro (“Altri canti di Marte”) è una sapiente miscela di storia della musica e ricordi di vita. Anche nel suo precedente libro aveva fatto questa scelta: quanto sono state importanti le sue esperienze nella formazione dell’uomo e del critico musicale?
Grazie per aver nominato il mio ultimo libro. In realtà in esso riprendo quasi per intero i panni di storico della musica; l’altro è un libro di letteratura nel quale si parla anche di musica. A sessantacinque anni le esperienza umane e musicali mi sono state magistrae.
Recentemente si è espresso in maniera netta sul tema delle unioni omosessuali e, più in generale, sui “gay” (mi perdoni il termine, che so non gradisce)…
Il libro del mio amico Eduardo Savarese, appena uscito, Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma, mi ha indotto a riflettere facendomi mutare d’avviso sulle unioni. Personalmente, la cosa non m’interessa; e continuo a credere che “gay” sia un eufemismo piccolo-borghese.
Il suo libro La virtù dell’elefante, come ha raccontato in una lettera a Pietrangelo Buttafuoco sul Fatto Quotidiano, è stato rifiutato da sei case editrici, tra cui Mondadori e Rizzoli…
Ringrazio la mia protettrice letteraria, la Madonna del Carmine, di aver trovato la Marsilio. L’esser stato rifiutato fu per me una fortuna.
Mi permetta un’ultima domanda. Ora che ha smesso di fare il critico musicale, cosa vuole fare Paolo Isotta da grande?
Ho capito solo ora di essere un vero scrittore. Buono o cattivo, non sta a me dirlo: ma vero. Il Signore mi ha dato doni che ho il dovere d’impiegare per non essere un servo inetto. Scrivere mi dà gioia; e farò libri.