Lo Stato quota in Borsa il gruppo Poste Italiane offrendo poco meno del 40% delle azioni in cambio di un po’ meno di 4 miliardi di euro. Per essere più precisi, l’Offerta pubblica di vendita riguarda una quota del capitale, ora detenuto dal ministero dell’Economia, compresa tra un minimo del 34,7% e un massimo del 38,2%. Di essa il 70% è riservato a investitori istituzionali, il restante 30% ai risparmiatori. Il prezzo per azione sarà fissato, in funzione dell’andamento della domanda durante il periodo di sottoscrizione, in una forbice compresa tra 6 e 7,5 euro. Nell’ipotesi meno favorevole alla finanza pubblica, che non è tuttavia verosimile, lo Stato venderà 453 milioni di azioni a 6 euro, incassando 2,7 miliardi. Nell’ipotesi opposta venderà 498 milioni di azioni a 7,5 euro, incassando oltre 3,7 miliardi.

Poiché il collocamento è realizzato principalmente per raccogliere risorse finanziarie private che rallentino la crescita del debito pubblico dobbiamo attenderci un esito molto prossimo all’ipotesi più favorevole per lo Stato. In quelle meno favorevoli il Tesoro avrebbe infatti preferito rinviare l’operazione. Ma quali sono i cambiamenti che dobbiamo attenderci per quanto riguarda i mercati dei servizi nei quali Poste Italiane opera? La quotazione è positiva o negativa per i cittadini? Il benessere collettivo sarà maggiore o minore?

Per rispondere occorre ricordare due modelli di tutela dell’accesso dei cittadini a servizi e beni essenziali che si contrappongono: il primo consiste nella produzione e offerta realizzata da imprese pubbliche; il secondo nella produzione e offerta realizzata da imprese private in concorrenza, a cui si aggiunge la regolazione pubblica dei mercati, quando la concorrenza non è sufficiente. A parità di risultati dei due modelli si può anche scegliere in base a preferenze ideologiche, non altrettanto se uno dei due fallisce sistematicamente i suoi obiettivi.

poste italianeCavour, a esempio, credeva nella possibilità di un intervento pubblico efficiente e volle le aziende autonome incardinate nei ministeri di riferimento. Coerentemente con quella scelta, le Poste rimasero direzione del relativo ministero dall’unità d’Italia sino al 1993, quando furono separate dal governo Ciampi perché spendevano 12mila miliardi all’anno di vecchie lire ma ne incassavano solo 8 mila e dalla seconda metà degli anni 50 ad allora avevano accumulato oltre 50mila miliardi di disavanzi.

Come si passa da una riva all’altra del fiume, da un modello in cui lo Stato non riesce più a garantire qualità ed efficienza dei servizi pubblici ad uno nel quale tale compito è affidato a mercati di concorrenza e/o a mercati regolati? Gli esempi internazionali riusciti consigliano di farlo in diverse mosse: 1) lo Stato istituisce un arbitro indipendente del mercato, un’Autorità di regolazione, precludendosi la possibilità di “proteggere” la controllata pubblica; 2) liberalizza il mercato garantendo l’accesso su basi paritetiche ai nuovi operatori; 3) cede il controllo dell’azienda privatizzando; 4) esce del tutto dall’azionariato. Questo è il modello britannico-conservatore, introdotto negli anni 80 da Margaret Thatcher. Vi è però un modello che si è rivelato altrettanto efficace ed è quello svedese-socialdemocratico: esso si ferma ai primi due punti, senza privatizzazione: le imprese pubbliche restano ma la loro efficienza, che a differenza dell’Inghilterra preesisteva, è garantita dalla regolazione e dalla concorrenza.

La privatizzazione non risulta pertanto indispensabile ma lo è l’effettiva liberalizzazione dei mercati. Nel caso italiano, delle Poste ma non solo, non si è seguito nessuno di questi due percorsi. Il settore è stato assoggettato tardi alla regolazione dell’Autorità delle comunicazioni, che peraltro ha concesso alla vigilia della privatizzazione consistenti incrementi delle tariffe, associati a incredibili allentamenti dei tempi standard di consegna. Il mercato del recapito è stato liberalizzato in Italia il più tardi possibile e senza garantire pari condizioni a tutti gli operatori, ma anzi riservando a Poste una serie di vantaggi: l’assegnazione sul territorio nazionale e per un tempo lunghissimo e senza gara del compito di garantire il servizio universale; l’esenzione dall’Iva, al contrario dei concorrenti; la permanenza di un regime di monopolio per il recapito degli atti giudiziari; controlli carenti sulla qualità che l’azienda si era impegnata a garantire a fronte delle compensazioni pubbliche e della permanenza di aree di riserva legale.

Si arriva alla “privatizzazione” ma senza cessione del controllo. Dopo la conclusione del collocamento oltre il 60% delle azioni resterà allo Stato, garantendo il proseguimento del pieno controllo pubblico. Nei prossimi esercizi, i sottoscrittori privati, compresi gli istituzionali, godranno della distribuzione dei dividendi ma non avranno voce sulla gestione. Cosa accadrà a Poste dopo la quotazione? Resterà azienda di Stato come prima; resterà azienda protetta; la sua redditività dipenderà come ora da scelte pubbliche e dai rapporti finanziari col pubblico, ma dovrà essere in qualche modo garantita per non deludere gli azionisti privati.

Non debbono preoccuparsi i sostenitori dell’intervento statale in economia, coloro che non demordono neanche di fronte ai casi più clamorosi di inefficienza, né farsi illusioni i sostenitori della bontà dei mercati di concorrenza: con la quotazione di Poste non cambierà assolutamente nulla. Citando von Clausewitz, si può sostenere che in Italia la privatizzazione è il proseguimento della proprietà pubblica con altri mezzi: quelli finanziari degli aderenti al collocamento. Per non cambiare basta un’azione.

Da il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 ottobre 2015

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