cannabis 675 275Qualche anno fa nelle pagine di questo blog scrivemmo di “Barcellona come Amsterdam”, cioè di come un vuoto legislativo in tema di “drogas blandas” (droghe leggere) aveva avvicinato la città del modernismo alla capitale olandese, luogo libertario per antonomasia.

Una semplificazione comunicativa ci fece accostare i noti “coffee shop” olandesi, attività aperte al pubblico per trarre un profitto economico, ai “cannabis club” catalani, associazioni per soli tesserati, almeno formalmente senza fini di lucro.

La forzatura di quell’accostamento è resa oggi più evidente da cambi di rotta della politica e da prese di posizione della magistratura iberica. La legge sulle sostanze stupefacenti, in verità, non ha subito riforme: in Spagna è punito il solo spaccio di droghe leggere, non l’acquisto o la produzione per consumo personale la cui soglia è fissata, per costante giurisprudenza, in circa 80 grammi mensili, con coltivazione di un massimo di quattro piantine pro – capite.

È cambiata, invece, la risposta delle autorità amministrative di fronte al proliferare dei “Maria club”, spuntati come funghi nelle zone grigie della legge, favoriti dalla deregulation: fino a pochi mesi fa bastava una semplice comunicazione di inizio attività per raccogliere quote associative.

In tutta la Catalogna si contano più di 400 clubs, oltre cento nella sola area metropolitana di Barcellona, dove un quarto delle associazioni è gestito da italiani, con un fatturato complessivo, per le associazioni operanti nella capitale catalana, stimato in cinque milioni mensili.

Il laissez faire è oramai storia passata, dal febbraio 2015 è stata introdotta una regolamentazione più stringente, con obbligo di richiedere una licenza comunale per l’apertura dei cannabis social club.

Il comune di Barcellona è andato oltre sospendendo per un anno la possibilità di aprire nuove associazioni, intanto i controlli dei Mossos d’esquadra, la polizia locale, si sono moltiplicati, aprendo la strada a provvedimenti restrittivi che hanno portato alla chiusura di decine di circoli per mere irregolarità amministrative.

Nello stesso solco sembra inserirsi la magistratura: la Suprema Corte di Madrid, con una sentenza dello scorso settembre, accogliendo il ricorso dei pubblici ministeri contro una pronuncia di assoluzione adottata dalla Audiencia Nacional (il tribunale d’appello) di Vizcaya, ha condannato ad 8 mesi di reclusione e ad una multa di 5000 euro il presidente, il segretario e la tesoriera di un’associazione cannabis di Bilbao, nei Paesi Baschi.

La Corte ha ritenuto applicabile l’articolo 368 del Codice penale spagnolo che condanna la coltivazione e il consumo di droghe, sottolineando la sproporzione tra un club con 290 soci e le ristrette dosi (pochi grammi) consentite pro – capite per uso giornaliero.

I giudici di Madrid non hanno mancato di evidenziare la labilità del confine tra legalità e illecito nel sistema dei clubs, lì dove riconoscere associazioni con centinaia di affiliati comporterebbe la necessaria tolleranza di enormi quantitativi di marijuana all’interno dei locali; uno squilibrio da correggere, secondo la Corte, la quale – pur riconoscendo che non è compito della giurisprudenza stabilire parametri per il consumo personale o tipi di licenze amministrative – arriva a determinare come criterio, utile per controlli effettivi, la fissazione di un limite di 30 soci.

Rimangono le incongruenze, alimentate da utilitarismi e da un’ipocrisia di fondo: gli statuti costitutivi dei clubs richiamano obiettivi e finalità prive di lucro, tuttavia i circoli sono l’epicentro di un business vero, ricavi che toccano non solo i gestori privati ma anche le casse di molti municipi catalani i quali, con gli introiti derivanti dall’apertura delle associazioni di “fumadores”, hanno potuto aggiustare i bilanci comunali.

Insomma, un po’ di bastone e un po’ di carota ….

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