Il nuovo direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall’Orto sognerebbe – ed anzi avrebbe addirittura un progetto riservato ma non troppo in questo senso – di trasformare la vecchia e pachidermica Tv di Stato in una media company con tanto di pay tv, in pieno stile Netflix.
La notizia rimbalza dalle colonne di La Repubblica di questa mattina in un bell’articolo a firma di Aldo Fontanarosa che scrive che la nuova “piattaforma” alla quale starebbe pensando il Dg di Viale Mazzini “punta ad intercettare inserzionisti pubblicitari che oggi sfuggono al servizio pubblico” ma anche ad ospitare “contenuti di pregio a pagamento”.
Guai, naturalmente, a commentare un “piano industriale” tanto ambizioso e rivoluzionario sulla base solo di alcune indiscrezioni per quanto circoscritte e verosimili ma val la pena, per l’ipotesi nella quale i progetti “intercettati” da La Repubblica risultassero veri, metter subito, nero su bianco, una manciata di concetti a beneficio dei tanti in Rai, nel governo, in Parlamento e nell’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni che potrebbero ritrovarsi coinvolti, a vario titolo, nell’attuazione del “piano Campo Dall’Orto”.
Il primo, non può che essere un plauso ed un incoraggiamento a chi, finalmente, immagina una Rai moderna capace di “scollarsi” dagli schermi e dalle antenne tradizionali, liberando, per davvero, il proprio straordinario potenziale editoriale anche attraverso i mille rivoli e canali offerti dalle nuove – si fa per dire – tecnologie della comunicazione anche a costo di doverne ripensare radicalmente forme e contenuti.
Che la concessionaria pubblica radiotelevisiva – a questo punto destinata ad essere ribattezzata concessionaria pubblica di servizi media audiovisivi – stia pensando di parlare agli italiani anche attraverso il web – al di là degli esercizi timidi e, per la verità, poco convinti fatti sin qui – è una notizia che lascia ben sperare per il futuro del Paese prima e della Rai poi perché una Rai per davvero online, potrebbe rappresentare un volano straordinariamente prezioso per dichiarare guerra all’analfabetismo digitale dilagante e contribuire a sconfiggere il cronico digital divide che divide il Paese e tiene lontano l’Italia dal resto d’Europa.
Ma perché il “Piano Campo Dall’Orto” – se La Repubblica ne anticipa correttamente il contenuto – possa meritare, per davvero, un giudizio positivo, sono necessarie almeno due condizioni imprescindibili.
La prima è che l’accesso ai contenuti del servizio pubblico attraverso la nuova piattaforma in stile Netflix non diventi un lusso per pochi ma sia un diritto di tutti perché, nel 2015, guardare la Tv via Internet, attraverso una connect Tv, un Pc, un tablet o uno smartphone non può davvero essere considerato un plus per il quale si possa pensare di chiedere ai cittadini di un Paese che abbia l’ambizione ad essere considerato moderno il pagamento di un abbonamento che vada a sommarsi al tradizionale canone Rai.
Guai, insomma, se si pensasse che la distribuzione dei contenuti Rai attraverso la nuova piattaforma può essere venduta come i viaggi sulle Frecce – rosse, argento e bianche – sono stati sin qui venduti ovvero come se si trattasse di una forma di trasporto di lusso anziché della semplice e naturale evoluzione dei treni di un tempo.
In linea di principio, naturalmente, in Rai potrebbe pensarsi ad utilizzare modelli “freemium” con alcuni contenuti prodotto grazie al canone e, dunque, “di servizio pubblico” in senso stretto disponibili gratis su tutte le piattaforme ed altri “premium”, disponibili solo per i cittadini che oltre il canone decideranno di abbonarsi alla nuova “pay tv” di Viale Mazzini.
Difficile, tuttavia, immaginare, in concreto, l’attuazione di un “piano industriale” di questo tipo perché è ovvio che la tentazione di riservare il meglio alla Pay Tv e di investire il “minimo sindacale” nei prodotti “standard”, sarebbe sempre in agguato giacché la Rai in versione “pay tv”, dovrebbe sfidare e vincere la concorrenza di giganti come Sky e Netflix.
Cedere a questa tentazione, tuttavia, significherebbe offrire ai cittadini italiani un servizio pubblico media audiovisivo di qualità peggiore rispetto a quello del quale hanno beneficiato sin qui, il che più che un passo verso il futuro, rappresenterebbe un salto del gambero verso il passato.
Un’altra condizione essenziale perché il “Piano Campo Dall’Orto” possa essere considerato una buona idea è che la sua implementazione sia compatibile con la griglia normativa, per la verità assai stretta, sulla base della quale, sin qui, la Commissione europea ha giudicato il “canone Rai”, un aiuto di Stato non illegittimo.
E’ ovvio, infatti, che una Rai che decidesse di diventare soggetto di mercato sul campo della pay tv, finirebbe, immediatamente, sotto la lente di ingrandimento dei controllori di Bruxelles, preoccupati – ed a ragione – che i tanti vantaggi competitivi, canone in testa, dei quali la Rai indiscutibilmente dispone, non si ripercuotano e non condizionino indebitamente il libero gioco della concorrenza.
E sotto questo profilo i sentieri che Rai, governo e Parlamento dovranno percorrere per evitare che l’attuazione del “piano industriale”, non costi al Paese l’apertura di una fondata procedura di infrazione da parte dei vigilanti europei, sembrano davvero strettissimi, tanto stretti da far dubitare della loro compatibilità con il margine di manovra del quale una “vecchia-nuova” media company come la Rai del futuro avrebbe bisogno.
Ben venga, dunque, una Rai come Netflix ma a condizione che sia per tutti, che dichiarando guerra al digital divide non si finisca con il creare un social o cultural divide ancor più preoccupante e, soprattutto, che si agisca nel rispetto delle regole di mercato perché nel caso dei contenuti informativi e culturali, libertà di concorrenza fa rima con pluralismo dei media ed il pluralismo è un cibo irrinunciabile per la nostra democrazia.