Giuliano Pavone ricostruisce dettagliatamente le vicende che hanno trasformato Taranto, città antica, di fondazione spartana, in una realtà parzialmente misconosciuta ai più, assurta agli onori delle cronache solo sporadicamente, in occasione delle morti bianche degli operai. O, infine, quando è scoppiato, finalmente, il bubbone giudiziario, con i procedimenti che hanno visto contrapposti da un lato la Procura di Taranto, il fronte ambientalista e quello dei cittadini tarantini, sempre più preoccupati per le ricadute ambientali della produzione di acciaio sulla città, e, dall’altro, il fronte politico-sindacale. Secondo Pavone questo divario emerse il 2 agosto 2012, proprio a Taranto, in un burrascoso e contestato comizio sindacale.
La lucidità della doviziosa ricostruzione giornalistica viene interrotta solo sporadicamente da brevi riflessioni (venate di nostalgia) sulla bellezza di una città che avrebbe meritato un altro modello di sviluppo, più idoneo a valorizzarne territorio e potenzialità inespresse. “Taranto è una collana gettata da una mano distratta. Ma con una certa eleganza, con quella grazia naturale che si trova solo – talvolta – nei gesti casuali e frettolosi”.
Il rapporto simbiotico tra città e siderurgico si è concretizzato in una “monocultura dell’acciaio”, a causa della quale “per ogni cosa che non sia civiltà dell’acciaio, vecchio o nuovo che sia, non c’è spazio”. Asfissia, dunque, per ogni alternativo modello di crescita che non sia parte dell’indotto “monoculturale”.
Il gip Patrizia Todisco dispose il sequestro degli impianti, suscitando non poco malumore nella politica nazionale, fin nelle alte sfere, oltre che il fondato timore, degli operai, di perdere il lavoro. Venne presentato, quel sequestro, come un’improvvisa calamità, invece che, come dice Pavone, “il portato di una lunga catena di azioni e omissioni”. Si arrivò a dire che il vero problema fosse la presenza del rione Tamburi a ridosso dell’Ilva… Si ricorda, nel libro, che le ordinanze, in realtà, chiedevano quel che sempre si è chiesto: “Che l’Ilva smetta di inquinare oltre i limiti consentiti”, sostenute, in tal senso, da due perizie tecniche rilevanti: “A Taranto la gente si ammala di cancro (e non solo) più che altrove. E ciò dipende dall’inquinamento industriale. L’hanno stabilito due perizie, una epidemiologica e l’altra chimica, commissionate dal giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco nell’ambito di un procedimento che vede il colosso siderurgico Ilva sul banco degli imputati”.
Si aprì, così, un caso giudiziario, tuttora in corso, che travalica il mero ambito penale, imponendo all’attenzione dei media il rapporto pericolosamente conflittuale tra salute e lavoro. Nel libro si familiarizza con parole chiave come benzoapirene (e relativi largheggiamenti nei limiti, tutti italiani…), diossina, polveri sottili, PM10, eccessi di mortalità in età pediatrica; leggerete storie tragiche, come quella del piccolo Lorenzo, e del suo coraggioso papà, conoscerete le dinamiche odiose del “ricatto occupazionale”.
Nata sulle ceneri dell’Italsider, “cattedrale nel deserto”, Ilva è esempio paradigmatico di industrializzazione top-down. Ma tra il 1960 e oggi, cosa è cambiato, nell’industria e nei tarantini? Pavone racconta il nuovo innamoramento tra tarantini e città. Parla della ricerca di nuove soluzioni. Venditori di fumo contiene tante pagine di speranza. Ma, si badi bene, una speranza costruita su idee e partecipazione dei cittadini. Non una speranza calata, anch’essa, dall’alto, come un decreto, o come l’Italsider.