Il film è parente di uno qualsiasi dei cinepanettoni anni novanta/primi duemila che volevano intrattenere a tutti i costi lo spettatore nonostante la stanca ripetizione della riuscita matrice originaria: l’adultolescenza all’ennesima potenza invade il grande schermo in più di 250 sale italiane
La prima domanda dopo nemmeno due minuti di Game Therapy è: ma Federico Clapis va ancora a scuola? Perché va bene l’overacting performativo, ma quello anagrafico ha effetti grotteschi. Clapis, uno dei quattro Youtubers del film, la star del web che inventa stornelli musicali divertenti (memorabile quello su Sasha Grey) ha 28 anni e ne dimostra 35. Ecco, quindi partire da qui non è reato. Il protagonista del film diretto da Ryan Travis, uno scolaretto pluribocciato che si fa accompagnare dalla mamma quando va dallo psichiatra, e che assieme al sodale smanettone FaviJ – dopo parliamo di lui – non riesce a vivere la vita reale ma riesce soltanto a vivere quella virtuale, è quasi da pensione. Eppure in lui, e in Favij, si dovrebbe percepire una tensione emotiva, un dolore esistenziale, una dolenza dovuta a famiglie assenti e playstation iperpresenti che li porta a permanere ad oltranza in un mondo virtuale inesistente.
L’adultolescenza all’ennesima potenza invade il grande schermo in più di 250 sale italiane per fondere l’impossibile: la peculiare connotazione culturale e linguistica degli Youtubers con uno script cinematografico miscelato tra action e video game. Un po’ come dire: vediamo se riusciamo a rivitalizzare questa vecchia ciabatta del cinema che se ne sta là in quelle sale buie e pulirsi le ragnatele con la passione per il gioco su tastiera delle nuove generazioni. E ci si sono messi in tre per il soggetto, in tre per la sceneggiatura e addirittura c’è pure un altro signore segnalato per aver fornito lo spunto originario (“da un’idea di”). Insomma una mezza dozzina di persone per scrivere Game Therapy, e per demolire il detto l’unione fa la forza. Perché va bene che i critici si lamentano sempre, magari pregiudizialmente, dicendo che i personaggi in scena “sono identici a quelli della tv” (lo si dice per i comici spesso), quindi per indicare come non si sia fatto lo sforzo di modificare alcunché in sede di scrittura, ma aver voluto trasporre su grande schermo tic e successi del comico di turno; ma qui in Game Therapy l’operazione esattamente opposta, quella di aver preso lontanamente a pretesto le identità originarie delle star del web, porta a risultati a dir poco catastrofici.
Nel film Clapis è uno scolaretto rabbuiato e paffutello, e non uno spiritoso nerd stagionato. FaviJ è un serioso programmatore di software che nemmeno una mostruosa maschera di Francesco Mandelli poteva inventare, invece del simpatico folletto che prova i videogame assieme a chi lo guarda online imprecando e saltando sulla sedia come un pazzo. Se cancelli le identità delle star riconoscibili avrai allora a disposizione una bomba di script, idee di regia fantasmagoriche e magari ragazzi che si impegnano a recitare un nuovo ruolo. Invece, calma piatta. Anzi, quasi ci si addormenta. Soprattutto quando inizia la doppia dimensione virtuale, il mondo della cosiddetta Game Therapy in cui si introducono nottetempo Favij e Clapis: livelli e scenari da video game tra arabeggianti deserti con scimitarre, desolati luoghi di guerra, e tradizionali highway californiane dove rincorrersi con auto e sparacchiarsi tra gang. Ed è qui che avviene il capolavoro scult.
Perché siamo sempre stati convinti che nel mondo dell’immagine e della visione mai nulla nasce per caso ma ha sempre un suo più o meno volontario rimando iconografico e storico. Così è bastato far scorrere qualche sequenza per capire che Game Therapy è parente di uno qualsiasi dei cinepanettoni anni novanta/primi duemila che volevano intrattenere a tutti i costi lo spettatore nonostante la stanca ripetizione della riuscita matrice originaria. Quando i “ragazzi” finiscono nelle sabbie del Marocco è Natale sul Nilo, in tutto e per tutto, comprese le balzane caratterizzazioni dei comprimari; quando vengono catapultati negli Usa c’è Vacanze in America a salutare con tanto di “awanagana” sordiano. Su tutti però c’è l’impalpabile dozzinalità con ricambio di costumi del dittico A spasso nel tempo 1 e 2 (1995-96). Indistinguibili i set milanesi da quelli esotici, impossibile percepire una sfumatura performativa delle due statue di sale protagoniste, per non dire del Clapis alla Jerry Calà. A proposito: e gli altri due youtubers, Zoda e Leonardo Decarli? Letteralmente non pervenuti. Game over.