A cento anni dal terremoto che la rase al suolo, ancora Messina non presenta una sua propria identità. E parliamo di architettura, ma anche di sentire, di appartenenza. Compressa tra la Calabria e la strada che a sud porta a Catania e ad ovest a Palermo, Messina è più che altro passaggio, scoglio dove approdare, se Scilla e Cariddi se ne stanno buoni e acquietati. Il Ponte sullo Stretto sembra volerlo soltanto Alfano. Messina è ricoperta di scritte sui muri, monumenti imbrattati, palazzi storici, e la Galleria, che, in miniatura, ricorda quella di Milano o quella di Napoli. Si salva il Duomo davanti al quale, però, di fronte alla piazza, una banca ha costruito il suo impianto di cristalli, un pugno limpido nell’occhio dell’arte. Il sindaco, che si presenta con una maglietta con su scritto “Free Tibet”, borsetta a tracolla arcobaleno, sandali, dal palco urla: “Noi li vogliamo i migranti” mentre la tendopoli del Palanebiolo è al limite del collasso.
Sul versante teatro qualcosa sembra muoversi, con la direzione di Ninni Bruschetta al Teatro Vittorio Emanuele (in questa stagione la prima del nuovo atteso lavoro di Scimone e Sframeli, ‘Amore’, e tre internazionalità da seguire: ‘Infinita’ della Familie Floz, Tomas Kubinek, ‘Golem’ di Suzanne Andrade), la Sala Laudamo che sta trovando la sua vocazione di spazio aperto, ed il festival Sabir, capofila la Rete Latitudini. Alla seconda edizione, con tutti i limiti di un’organizzazione che ha voluto inserire troppi appuntamenti, una ventina di incontri, dibattiti, seminari, presentazioni di volumi al giorno, supportata da poche teste e da molti volontari under 18 (oltre 150 unità) che facevano più allegria e volume che altro. Titolo del Sabir: Fuori Luogo. Interessanti le location, dal Monte di Pietà (acustica da dimenticare) alla Galleria, finalmente viva, dalla Chiesa San Tommaso Il Vecchio al Palacultura. In concomitanza con le stesse date del Sabir, al Vittorio Emanuele partiva la stagione con Micha von Hoecke e contemporaneamente Alfonso Santagata sviluppava il suo ‘Esterni scespiriani‘. Una patina di vagamente amatoriale e sciatto ammanta, anche frutto del poco confronto con il resto d’Italia.
Anche se non han
Le note dolenti arrivano appena il discorso cade sui prodotti dell’isola a forma di triangolo: ‘Nel fuoco’ del palermitano Giuseppe Massa, ‘Patrizzia‘ (con due zeta) del catanese Savi Manna, ‘La madre dei ragazziì’ di Lucia Sardo, e ‘Volver’ del palermitano Giuseppe Provinzano. Nessun messinese, ed è già una notizia. Un affannarsi ‘Nel fuoco’ di Massa (apprezzammo molto il suo precedente ‘Chi ha paura delle badanti?’) che ripercorre la storia vera di un venditore abusivo nordafricano che si è dato alle fiamme per protestare contro i vigili urbani che, la tesi dell’autore, lo vessavano con continui controlli. Il performer nudo si agita molto, anche con una spada laser, contro i piedistalli spartitraffico che ci hanno riportato ad un Alberto Sordi datato. Veniamo imboccati con la “verità” e la linea di demarcazione tra buoni e cattivi è molto netta, e gli italiani sono, ovviamente, nella seconda categoria e, evidentemente, razzisti creando una frattura insanabile tra palco e platea.
‘Patrizzia’ risente di alcuni cliché, l’uomo en travestì in primis, che ci riporta nel recente a Saverio La Ruina, ai personaggi emmadanteschi o al Toledo di Cirillo, solo per citarne alcuni. Il catanese stretto non aiuta, la penombra e l’uso delle luci in maniera non propriamente adeguata appesantiscono, mentre sul finale si fanno strada Bonnie e Clyde o Thelma e Louise. Rimane il fatto che Manna sia interprete di qualità qui compresso in un personaggio non così riuscito. Nell’elogio-omaggio alla madre di Peppino Impastato, Lucia Sardo, che già ne interpretò i contorni nella pellicola di Marco Tullio Giordana ‘I cento passi’, ha in mano dei contenuti colmi di significato e li sfibra con una forma (non) teatrale che risulta scolastica con continue spiegazioni, un video iniziale fuori luogo, il leggio e i fogli in mano che creano distacco (e mancanza di rispetto per il pubblico) e quell’atmosfera da dettato, da lezioncina paternalistica, il tutto dilapidato sulla facile commozione finale che tutto appiattisce.