In realtà il mestiere più pericoloso, secondo le statistiche, non è il nostro: è il metalmeccanico. O il minatore, il boscaiolo, dipende dai Paesi – ma mai il corrispondente di guerra.
E se nelle classifiche siamo comunque in alto, non è per via di noi stranieri: a essere a rischio sono i giornalisti locali. In Siria sono stati uccisi 14 giornalisti stranieri, 116 siriani. Ed è così ovunque. La pericolosità, in questo lavoro, varia insieme alla nazionalità. A essere falciati sono soprattutto i cronisti della Colombia, del Messico. Della Russia. Del Pakistan. O in Italia, quelli che si occupano di mafia. Chi fa inchiesta, non chi fa il fronte.
E noi stranieri non scriveremmo un rigo senza i giornalisti locali. Senza i nostri fixer – dall’inglese to fix, riparare: il fixer è un interprete, è una guida, è un logista: è tutto: è quello che ti organizza ogni cosa. Ogni dettaglio. Ti risolve ogni problema. E’ quello che rende possibile il tuo reportage. E che si espone infinitamente più di te: perché poi tu parti, lui rimane. Il fixer è quello che prepara il tuo reportage. E quello che ne paga le conseguenze. Mentre tu, a casa, ritiri i premi.
Ed è per questo che mi è così difficile, in questi giorni, stare a Istanbul. Sono qui a scrivere un po’ di cose arretrate prima di rientrare in Siria e Iraq, e un po’ scrivo un po’ giro, in questa città che è un intarsio di Oriente e Occidente come nessun’altra al mondo, ed è strabiliante, e fa venire voglia di viverci, di invitarci tutti gli amici, tutti i parenti, perché per tutti avrebbe qualcosa di speciale – e però poi da qualche parte, in un carcere di massima sicurezza, mentre io giro per caffè, mentre io compro sciarpe e tappeti, è rinchiuso Mohammed Rasool. Che ha 24 anni, è nato in Iraq, e nonostante l’età, è uno dei migliori fixer del Medio Oriente. Uno capace di spiegarti ogni minima sfumatura di ogni minimo evento. Con semplicità e precisione. E soprattutto, passione. Uno capace di tenere banco per due ore, in piena notte, a dicembre, mentre esausti, e congelati, aspettavamo di entrare a Kobane, parlando di Sykes-Picot e del codice d’onore delle tribù beduine. Uno che nel tempo libero noi eravamo su Twitter, lui sui libri per il dottorato. Ma è stato arrestato il 27 agosto a Diyarbakir, mentre insieme a due giornalisti inglesi di Vice, poi rilasciati, lavorava alla fine della tregua tra la Turchia e i curdi. Sono stati accusati di avere legami con l’Isis.
Perché la Turchia è questo, oggi. Un Paese apparentemente normale, in cui però si vota tra una settimana, e il sud-est del Paese è sotto bombardamento, città sotto coprifuoco, città sotto assedio, scontri per strada, morti: nel più totale silenzio internazionale. Perché Erdogan è il nostro alleato. Il suo Paese, fisicamente, il suo territorio, ci è indispensabile, ci è indispensabile la sua stabilità: e quindi gli si perdona tutto. Gli si perdona l’intimidazione, se non l’aggressione, ormai sistematica della stampa, l’oscuramento sempre più frequente dei social network, di Facebook, di Youtube, gli si perdona la repressione sempre più violenta degli attivisti, di tutto quello che è cominciato con il movimento di Gezi Park, la censura, gli arresti, gli insabbiamenti, le perquisizioni: gli si perdona persino la sua ambiguità nei confronti degli islamisti. Perché la Turchia, formalmente, è in guerra contro l’Isis, ma poi lascia aperta la frontiera con la Siria: e fa da retrovia, è noto, a tutti i ribelli siriani. Isis incluso. E’ dalla sua frontiera che passa il petrolio di contrabbando, la principale fonte di finanziamento dell’Isis – di cui la Turchia è la principale acquirente. Nel primo mese di guerra all’Isis, la Turchia ha bombardato 300 volte i curdi, 3 volte l’Isis.
E però, la Turchia ospita oltre 2 milioni di rifugiati siriani. Più un altro milione, si stima, di siriani clandestini. Fino a oggi, per i rifugiati siriani ha speso 5 miliardi di dollari: l’Italia 88.496 – più o meno il 60 percento di quello che Matteo Renzi ha speso per andare a New York alla finale degli Open di tennis. E se la Turchia è stata capace di tutto questo, è perché Erdogan ha guidato il Paese in dieci anni di sviluppo vertiginoso. Non solo economico. Fino a ieri, la sua Turchia è stata un modello di equilibrio tra Islam e democrazia studiato ovunque. E appunto: è sufficiente girare per Istanbul, oggi, non solo con la sua bellezza, la sua efficienza, ma la sua energia, per capire quanto siamo stati razzisti nel negare alla Turchia non solo l’ingresso nell’Unione Europea, ma anche una qualsiasi discussione reale sulle nostre possibile relazioni. Con mille pretesti: ma al fondo, perché la Turchia è musulmana. E i musulmani sono i neri di questo secolo. Sono quelli contro cui tutto è permesso. Adesso la Turchia attraversa un momento delicato, è vero. Ma non perché i musulmani sono inadatti alla democrazia, come già si sente dire: perché paga piuttosto le conseguenze della chiusura dell’Europa, e della guerra dietro l’angolo. Cosa sarebbe accaduto all’Italia, alla Francia, alla Svezia, a parità di condizioni? Se Londra, all’improvviso, si fosse ritrovata per strada 500mila siriani, il 15 percento dei suoi abitanti?
Istanbul ospita da sola più rifugiati siriani dell’intera Unione Europea. Questi non sono Paesi complicati, ma complessi. In cui è facile scivolare negli stereotipi, nelle semplificazioni, e non vedere quanto accadrebbe anche a casa nostra, e magari già accade: Paesi in cui è facile ergersi a giudici, e criticare – Paesi in cui è essenziale l’analisi di insieme. Capire cosa deriva da cosa. Cosa influenza cosa. Altrimenti si gira per Istanbul pensando solo: questa in realtà è una dittatura. Ma per capirci davvero qualcosa, avrei bisogno di Mohammed Rasool.