La faccenda del canone Rai può, come poche altre faccende italiche, essere considerata veramente la metafora del tutto. Della politica, dei conflitti di interesse, del sistema fiscale, della pratica di massa dell’evasione fiscale, ma anche della generale commedia degli inganni e degli equivoci. Per cui la decisione del governo di imporre un sistema per far pagare quell’imposta di meno e a tutti (anche agli evasori) viene sottoposta a una generalizzata raffica di accuse scandalizzate e addirittura disgustate, facendo passare in secondo piano la ben grave “riforma Rai” – politicamente e socialmente devastante, addirittura un passo indietro rispetto alla già indegna situazione attuale – con la quale il governo accentua una sottomissione del servizio pubblico ai partiti e al governo già oggi da Repubblica delle banane.
Ma partiamo da due, anzi da tre dati semplici semplici, noti da tempo, ma sepolti sotto montagne di polemiche, campagne, ipocrisie e slogan tipo “la tassa più odiata dagli italiani”. Eccoli:
1.nel resto d’Europa (salvo il Belgio e i paesi dell’Est) si paga un canone televisivo più alto che in Italia (rispetto ai nostri attuali 113,5 euro, in Francia si pagano 131, nel Regno Unito 174,5 e in Germania addirittura 215,7);
2.nonostante questo, in Italia si registra un’evasione del 27%, nel Regno Unito del 5, in Francia e in Germania addirittura dell’1;
3.questo nonostante che l’“odiata” (e per molti aspetti effettivamente odiabile) Rai faccia più ascolti di tutti e in particolare di Mediaset. Quindi sarà forse – probabilmente o forse no, anzi certamente no – la “più odiata”, ma è la più seguita. Eppure incassa meno della metà della raccolta pubblicitaria di Mediaset: nei primi otto mesi di quest’anno, il servizio pubblico ha attinto per esempio al 21% della raccolta registrata complessivamente nel settore televisivo (cioè a 470 milioni), mentre la Tv di Berlusconi se ne è assicurato il 57% (1 miliardo e 26 milioni).
Questo avviene non per la legge del mercato o perché la Rai sia poco brava o poco appetibile pubblicitariamente. Ma per uno specifico motivo, che pure dovrebbe essere arcinoto: da circa trent’anni la politica penalizza la Rai, oltre che con la propria smisurata voglia di apparire, di controllare l’opinione pubblica e quindi i dirigenti e gli operatori dell’informazione, per favorire Mediaset. La famosa “legge Gasparri”, vale a dire la legge che il presidente del Consiglio Berlusconi fece confezionare su misura delle proprie aziende da propri esperti (poi naturalmente piazzati ai vertici Rai) confermò le limitazioni imposte già dal 1990 al servizio pubblico con la legge Mammì: “La trasmissione di messaggi pubblicitari da parte della concessionaria pubblica non può eccedere il 4% dell’orario settimanale di programmazione ed il 12 per cento di ogni ora; un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso di un’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva!”. Si consentiva – e si consente – invece a Mediaset di agguantare tutta la pubblicità possibile.
Chiaro? Bene. Ma, in conseguenza, dovrebbe essere chiaro e notorio un altro dato semplice semplice: quello che si chiama comunemente “canone Rai”, nella sostanza – e vedremo, anche nella forma – è in realtà solo una delle componenti del “monte risorse” del settore, insieme alla pubblicità (e agli abbonamenti). Vale a dire che, così come si consente a Mediaset di prendersi quote di pubblicità che spetterebbero alla Rai, si consente a questa di incassare tutto il canone. Vale a dire ancora che quel canone va a finanziare il sistema televisivo nel suo complesso, a cominciare da Mediaset. Insomma, se si eliminasse il canone e si togliessero i limiti di raccolta alla Rai, essa acquisirebbe più risorse dalla pubblicità, in proporzione ai propri maggiori ascolti, togliendole in gran parte a Mediaset (gli esperti ritengono che, da sola, Rai Uno porterebbe a viale Mazzini 500 milioni di introiti).
Si aggiunga a questo che, da tempo, non si tratta nemmeno sul piano formale di canone Rai. “Benché all’origine apparisse configurato come corrispettivo dovuto dagli utenti del servizio”, sentenziava nel 2002 la Corte costituzionale, “ha da tempo assunto, nella legislazione, natura di prestazione tributaria, fondata sulla legge”. Non solo, ma “se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come tassa, collegata alla fruizione del servizio, in seguito lo si è inteso come imposta”. E nel 2007 la Cassazione ribadiva e chiariva: quel non-canone e non-tassa “non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’Ente Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall’altro, ma costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo”.
Dunque, ferma restando l’antica e sempre più urgente necessità di un radicale taglio agli sprechi, ai privilegi e alle clientele del servizio pubblico, e quindi di un suo radicale potenziamento gestionale, organizzativo e di contenuti, è indubbio
1.che esso vada in una qualche maniera sostenuto con risorse pubbliche;
2.che cento euro l’anno sono una imposta ragionevole;
3.che allo stato degli atti (finché resteranno i limiti all’azione di raccolta pubblicitaria della Rai: e non è detto che questa non sia una condizione saggia) questa imposta debba intendersi relativa, nella sostanza, all’offerta e alla ricezione dell’intero sistema televisivo,
4.che se esiste un canone o una tassa o una imposta, è giusto che la paghino tutti (e non solo i “fessi”) e che lo Stato faccia di tutto per stroncarne l’evasione , almeno sino a quando esso o essa sia in vigore,
5.lo strepito suscitato dall’iniziativa del governo Renzi per il pagamento di questa imposta – per una volta – appare ingiustificato e strumentale, e comunque ambiguo ed equivoco.