L’hotel in pieno centro a Milano che ospita le interviste alle star americane di Netflix è ovviamente a cinque stelle, di extra lusso. Gli americani che promettono di portare in Italia la rivoluzione della tv online amano fare le cose in grande. E si vede. Al piano riservato agli incontri con la stampa, si sente parlare più inglese che italiano. Assistenti, truccatori, uffici stampa con forte accento americano, trottano avanti e indietro per i corridoi, con quell’aria tipicamente statunitense di chi crede di essere Dio in Terra, anche se magari si limitano a portare caffè annacquati agli attori.
Qualche collega giornalista è lì per interviste one-to-one, molti altri, tra cui noi, per le round table. Prendiamo posto in una stanza, attorno a un tavolo rotondo (appunto), e attendiamo pazientemente le star americane (più Pierfrancesco Favino) che si avvicenderanno per rispondere alle nostre domande. Il primo è Will Arnett, attore canadese noto agli appassionati di serie tv per aver interpretato Gob in Arrested Development, (e per essere stato il marito di Amy Poehler) ora voce di BoJack Horseman, protagonista di una serie animata targata Netflix. È uno dei pochi che si presenta da solo e, forse per rompere il ghiaccio, si dimostra brillante e amichevole. Denti bianchissimi, Vans senza calze, t-shirt stretta abbastanza da mostra i muscoli definiti, Arnett è anche il primo (lo faranno anche tutti gli altri, con una sola e significativa eccezione) a sgranare il Rosario delle differenze tra Netflix e i network televisivi tradizionali: “C’è più creatività, nessuno sta lì a farti fretta, a ricordarti che il tempo è denaro, che devi limitarti a seguire il copione”. Quant’è bello Netflix, quant’è geniale Netflix! È un leitmotiv che ci accompagnerà nel corso delle tre ore che passeremo in compagnia delle star accorse in Italia per lanciare il servizio di streaming online. Ci sta. In fondo sono qui per questo, i belli e sorridenti divi d’oltreoceano.
E a proposito di belli e sorridenti, il più felice sembra essere Miguel Angel Silvestre, attore spagnolo che dalla mezza soap di dubbia qualità Velvet (trasmessa in Italia su RaiUno) è passato a Sense8, splendida serie ideata e diretta da quei due geni dei fratelli Wachowski. Parla un italiano più che dignitoso ed è lui il mattatore della round table dedicata a Sense8. Al suo fianco, decisamente più distaccata e quasi timida, c’è Daryl Hannah. Quella che fu una delle donne più belle di Hollywood, oggi mostra i segni del chirurgo, più che quelli del tempo. Nonostante una carriera lunga qualche decennio, è alla sua prima esperienza televisiva e ci tiene a rivendicarlo: “La tv non mi ha mai interessata. Non ho nemmeno il televisore in casa!”. Ed è subito attrice romana engagée con base al Pigneto. E se avessimo avuto un briciolo di coraggio in più, le avremmo ricordato che girare Olè con Massimo Boldi e Vincenzo Salemme non è esattamente come recitare Brecht a teatro.
Quando in stanza arriva Pierfrancesco Favino, che ha una piccola parte (pare destinata a crescere nella seconda stagione) in Marco Polo, ci si rilassa, si torna a parlare italiano e si cerca di cogliere l’opinione di un attore italiano alle prese con una macchina da guerra così imponente e prestigiosa. Si dice “orgoglioso” di essere l’unico italiano della combriccola e ne ha ben donde. Però non dimostra molto coraggio quando gli chiediamo perché le serie tv e le fiction della televisione generalista di casa nostra non riescano nemmeno lontanamente ad avvicinarsi agli standard qualitativi americani. I suoi colleghi d’oltreoceano sull’argomento sono stati esaustivi e chiari: tra Netflix e la vecchia tv tradizionale c’è un abisso in quanto a metodo di lavoro, creatività, voglia di osare e sperimentare. Lui no, utilizza un paragone calcistico che non abbiamo capito al 100% (ricordiamo solo che si parlava di Barcellona, Spal e Dio solo sa cos’altro), ma alla fine sbotta: “Io sono attore, non dirigente televisivo. Non so nemmeno come si fa un palinsesto”. Per la serie: che volete da me? Fatemi godere il momento di gloria e non mettetemi in difficoltà, che prima o poi potrei tornare a fare fiction su RaiUno!
Le ultime due round table sono completamente al femminile: prima Carrie Ann Moss e Krysten Ritter direttamente da Jessica Jones, l’attesa serie tratta da un fumetto Marvel, poi Taylor Schilling e Kate Mulgrew dell’osannatissimo Orange is the new black. Krysten Ritter, nota anche in Italia per Breaking Bad e Non fidarti della stronza dell’interno 23, è rilassata e spontanea. Carrie Ann Moss, bellissima ed elegantissima, sembra più annoiata, parla pochissimo e si limita ad attaccarsi alla bottiglie d’acqua per placare la sete. Stesso duplice approccio che notiamo con Taylor Schilling e Kate Mulgrew. La prima è esattamente come il personaggio che interpreta in Orange is the new black, la serie tutta al femminile (e con alto tasso di lesbismo) ambientata in un carcere: snob, noiosa e annoiata. L’esatto contrario di Kate Mulgrew, che esordisce con un “Ciao!” e passa in rassegna i piatti italiani che sa cucinare (“Ragù alla bolognese e Ossobuco”). Da attrice navigata qual è, la Mulgrew seduce il pubblico, e poco importa se è composto da giornalisti, che dovrebbero essere più resistenti alle avance di una vecchia volpe da palcoscenico: ci caschiamo tutti, alla fine della round table la amiamo follemente.
Poi ci alziamo, lasciamo la stanza arredata con fotografie tratte dalle serie Netflix e cuscinoni brandizzati (che qualcuno tra noi avrebbe voluto portare a casa) e andiamo via. Pensando, ovviamente, che questi diavolacci di americani ci sanno fare. Che hanno soldi e non hanno problemi a spenderli. Che gli attori americani sono molto più sinceri e spontanei di quelli italiani. Che Favino ha risposto a tante domande ma non a quella fondamentale, che ci ha accompagnati per tutto il giorno, fino al party della sera: ma le nuove penne rigate, lo trattengono davvero il sugo?