Eppure, nella serie d’incontri che, con l’eurodeputata verde Ska Keller e il co-presidente del Verdi turchi Ahmet Asici abbiamo organizzato dal 19 al 21 di ottobre, il timore di un possibile, drammatico ritorno a un passato di violenza e repressione, che si pensava davvero morto e sepolto, è stata palpabile.
Quattro conclusioni dalla nostra breve visita:
1. Le elezioni dell’1 novembre, comunque vadano, potrebbero non essere risolutive e la situazione di grave impasse potrebbe continuare. Molti dei nostri interlocutori hanno confermato che la società è molto polarizzata e questo approfondisce le divisioni culturali, etniche ed ideologiche tra le persone. Tanto per fare un esempio, molti di coloro che sostengono l’Akp, pensano che in fondo quelli che sono morti negli attentati di Ankara e Soruc sono in parte responsabili della loro morte, perché stavano dove non c’era ragione di stare. Nonostante questo, praticamente tutti i nostri interlocutori, pur essendo preoccupati e in alcuni casi anche depressi della situazione, hanno detto che si aspettano che l’Hdp superi la soglia del 10%. Non ci sono eccessive preoccupazioni su possibili frodi alle elezioni, pur se continuano le notizie in merito alla chiusura e spostamento di seggi elettorali nelle zone di maggiore penetrazione dell’Hdp, ufficialmente per ragioni di sicurezza. Infine, altro aspetto positivo, c’è notevole ottimismo sulla capacità della società civile e dell’opposizione a resistere al tentativo di “putinizzazione” della Turchia. Il problema è dato soprattutto l’incertezza sul tipo di governo che emergerà dalle urne e dalla preoccupazione che, nel caso in cui Erdogan riesca alla fine ad ottenere la maggioranza assoluta, la deriva autoritaria in atto non potrà che accentuarsi, con conseguenze molto pericolose per la stabilità e la coesione della società turca.
2. Ma perché Erdogan ha ritenuto di fermare il processo di pace, respingendo l’accordo che pareva ormai concluso in aprile e riaprendo le ostilità contro il Pkk dopo l’attentato di Soruc? Questo tema è tornato molto spesso nei nostri colloqui. E l’ipotesi più gettonata è che la prospettiva della fine del conflitto con i curdi, la resistenza di Kobane, la crescente popolarità Salahattin Demirtas, la popolarità del modello partecipativo e paritario di Kujava, l’abbiano convinto che le sue chance di conquistare la maggioranza assoluta stavano rapidamente sfumando. E perdere il potere per Erdogan non è solo una questione politica. Per lui e la sua famiglia significherebbe sicuramente finire in galera, a causa dei fatti gravissimi di corruzione e appropriazione indebita emersi a Natale 2014 e di cui è accusato direttamente, insieme a suo figlio, ora studente a Bologna. Inutile dire quanto questo suoni familiare per noi italiani. Ma le conseguenze in termini di violenza e repressione non avrebbero nulla a che vedere con l’operetta nostrana.
3. L’Unione europea e il suo nuovo interesse per la Turchia. La crisi dei rifugiati è abilmente utilizzata da Erdogan ed è solo l’ultima dimostrazione dell’imbelle cinismo, della mancanza di strategia, della meschinità degli europei, intesi come istituzioni comunitarie (escluso in parte il Parlamento europeo) e Stati membri, Germania e Italia incluse. Erdogan ha capito benissimo di avere in mano una potentissima arma, non solo per ottenere denaro, ma anche per superare facilmente la perplessità europea sulla rottura del processo di pace con i curdi; sulla dura repressione che porta ogni giorno a vittime civili e all’arresto quotidiano di sindaci, avvocati, attivisti e oppositori; sulla sua incredibile e perdurante ambiguità sull’Is; sulla repressione e manipolazione di stampa e dibattito politico, al fine di conquistare la maggioranza assoluta e cambiare la Costituzione; sui silenzi e le preoccupanti ambiguità sui terribili attentati di Soruc e Ankara. Come ci ha riferito tristemente il direttore di Hurryet, la qualità della democrazia turca è un tema che non interessa affatto agli europei e non da oggi.
C’è peraltro da chiedersi se la qualità della democrazia in genere interessi agli europei, visto la durezza usata con la Grecia sui conti, in contrasto netto con la pigra tolleranza per Orban, l’indifferenza per lo smantellamento progressivo della democrazia ungherese, ma anche di fronte alle migliaia di profughi esposti al freddo e alle minacce della polizia alle frontiere di Croazia e Slovenia. Eppure, l’esperienza dovrebbe insegnare ai nostri leader che cedere sui principi di base dell’Ue, sostenere Erdogan e fornire soldi senza condizioni non servirà a fermare il flusso dei fuggiaschi dalla guerra di Assad, né a garantire stabilità in Turchia. Merkel, prima di andare a sostenere Erdogan tacendo sulla strage di Ankara o sulle pressioni sulla stampa, aveva parlato del viaggio come di un “verdammte Phflicht”, un maledetto dovere e la stampa turca non ha mancato di sottolineare il potente sostegno che questo viaggio ha rappresentato per Erdogan e addirittura l’umiliazione della Cancelliera.
4. Una parte importante delle nostre discussioni ha toccato la questione dei rifugiati. In generale, abbiamo trovato la situazione difficile, ma anche i dati ufficiali e l’Unchr dicono che la situazione è migliorata rispetto a qualche anno fa; ed è un dato di fatto che il governo turco sta affrontando la presenza sul suo territorio di 2,2 milioni di siriani a cui si aggiungono migranti di altre nazionalità. Molto più di qualsiasi paese dell’Ue. Certo, ci sono crescenti tensioni, anche perché gli arrivi non accennano a diminuire. Da venerdì 16 ottobre, sono 50.000 le persone in fuga da Aleppo e dai bombardamenti di Assad. La difficile situazione economica della Turchia, dopo gli anni di crescita, naturalmente non aiuta e il lavoro nero dato ai siriani in concorrenza ai turchi nel settore tessile e edile è molto diffuso. Abbiamo avuto la possibilità di visitare un centro per l’assistenza ai rifugiati: “Associazione per la solidarietà con i richiedenti asilo e migranti”, Asam, e abbiamo avuto un colloquio con quattro rifugiati siriani, tre donne e un uomo. Abbiamo ricevuto tre messaggi principali durante questo incontro molto commovente. Attualmente, circa l’85% dei siriani che arrivano in Turchia vuole andarsene, perché non vede un futuro in Turchia. Circa il 30% vorrebbe invece rimanere in Turchia. Solo il 20/30% dei bambini va a scuola, la maggior parte cerca di lavorare. Quindi, restare può diventare un’opzione se la situazione economica e alcune regole venissero introdotte, dal permesso di lavoro allo status legale di rifugiato. In secondo luogo, è una mera illusione degli europei credere che sarà possibile forzare centinaia di migliaia di rifugiati a rimanere nei campi. Uno dei profughi che abbiamo incontrato ha detto molto chiaramente: i campi sono per le persone disabili che hanno bisogno di essere nutrite; in Siria avevano una vita normale (lui era un ingegnere agricolo, le tre donne insegnanti), e l’idea di finire in un campo e non fare nulla per mesi era insopportabile. Tutte le persone con cui abbiamo parlato hanno confermato che i campi non sono un’opzione sostenibile, figuriamoci l’idea di Erdogan di creare una “zona sicura” in Siria e concentrare lì tutti i rifugiati. In terzo luogo, l’Ue non può disinteressarsi del modo in cui i soldi che darà alla Turchia verranno spesi. Ci sono seri problemi di sfruttamento, di abuso, di mancanza di accesso a scuola, sanità, alloggi. E comunque, il sostegno finanziario non sarà mai sufficiente se la guerra non si ferma e se non ci sarà da parte dell’Ue la disponibilità ad aprire le frontiere e facilitare l’arrivo, la distribuzione e l’inserimento di un numero ben maggiore di rifugiati, utilizzando gli strumenti legali oggi esistenti, il ricongiungimento familiare, la protezione temporanea, eccetera.
Dalle notizie che arrivano dal vertice appena conclusosi a Bruxelles, appare chiaro che nessuna di queste opzioni sia ora sul tavolo. E che la possibilità che la crisi democratica della Turchia – ma anche della Ue – precipiti è reale, e molto preoccupante. Rimane da capire se le forze democratiche e le istituzioni comuni potranno evitare una situazione ancora più nera di quella attuale.