La programmazione delle tre reti generaliste della Rai è suddivisa in due parti: per metà è composta dall’informazione, e per l’altra dall’intrattenimento (il grafico fa riferimento all’intera giornata). Si sostanzia in tal modo, almeno per quanto riguarda i generi trasmessi, la missione di un servizio pubblico: informare e divertire.
Una rete televisiva dovrebbe essere il luogo della fantasia, della creatività. Se si escludono i telegiornali, dove le possibilità di innovare sono piuttosto limitate, in tutti gli altri programmi, in particolare d’intrattenimento, si potrebbero operare continui cambiamenti.
Invece, la televisione è il luogo della conservazione. Uno dei mali della Tv è proprio la ripetitività infinita dei soliti programmi, dei soliti autori e conduttori.
Il programma Sereno Variabile, tanto per fare qualche esempio, va in onda sostanzialmente immutato da 37 anni, mentre Mattina in famiglia (successivamente Mezzogiorno in famiglia) è in onda dal 1989. E l’elenco sarebbe davvero lungo (va rilevato che longevità non sempre comporta scarsa qualità).
Come mai la televisione è così vecchia? Vi sono programmi e conduttori che invecchiano insieme ai propri iniziali ascoltatori. Lo stesso palinsesto è uguale negli anni; quello di Raiuno (e di riflesso per Canale5) è lo stesso dagli ultimi vent’anni.
Spesso si preferisce far languire un programma piuttosto che chiuderlo per evitare il rischio di un risultato ancor peggiore con uno nuovo, anche per risparmiare sui costi fissi del programma.
Andare in onda su una grande rete nazionale è impresa difficilissima, oltre che ambitissima, e quindi le stesse forze che hanno ottenuto l’ingresso nel video (dalle società di format, agli sponsor, ai protagonisti del programma) sono a difesa dell’eventuale chiusura. In effetti, è più difficile andare in onda con un programma piuttosto che assistere a un taglio del programma.
Come ringiovanire la Tv, opera sulla quale si sta impegnando, almeno nelle dichiarazioni, il nuovo vertice della Rai? La creazione di una “direzione creativa”, voluta dal nuovo direttore generale, dimostra, in effetti, un’attenzione nuova ai programmi (va peraltro ricordato che la “Serra creativa”, nata negli anni duemila, dette scarsi risultati).
Il palinsesto non cambia poiché soggiace alle logiche del target: i programmi sono scelti in base al pubblico prevalentemente presente nelle singole fasce orarie. Un moderno servizio pubblico non dovrebbe essere prigioniero dei target maggioritari, ma pensare di rivolgersi a tutti. Già un cambiamento del palinsesto sarebbe una novità quasi “rivoluzionaria” per la Rai.
Un’idea originale potrebbe essere quella del “programma a sorpresa”. In un giorno della settimana, proprio in prima serata, il programma dovrebbe essere sempre del tutto nuovo. Potrebbe essere un documentario, un film d’autore, una pièce teatrale, come uno spettacolo comico. Nel frattempo una rete tematica dovrebbe essere dedicata solo alla sperimentazione (questo era l’obiettivo, non raggiunto, di Rai5).
La Rai dovrebbe inoltre aprirsi alla società. Uno spazio della programmazione dovrebbe essere a disposizione dei migliori video prodotti da autori esterni. Non si tratta di riprendere la vecchia idea dei “programmi dell’accesso”, nata a seguito della riforma del 1975 (erano programmi autoprodotti da associazioni sociali, programmi peraltro seguiti da pochi poiché fatti in modo del tutto dilettantesco). Nel nostro caso si tratterebbe invece di far emergere quanto di meglio esiste nel mondo delle produzioni estranee al circuito delle grandi società di produzione audiovisiva.
Un po’ di fresca innovazione è quanto di più manca alla Rai! Riuscirà la Rai ad andare incontro alla società, magari recidendo il cordone che la lega alla politica?