“Giura che non fai il mio nome né quello dell’azienda, altrimenti riattacco”. Dal tenore delle richieste si capisce che siamo al day after da choc-salumifero. La notizia sul rischio di contrarre tumori da carni e insaccati diffusa ieri su scala planetaria avrebbe già sortito pesanti effetti sulle vendite nazionali, con un crollo stimato da Confersercenti nell’ordine del 20%. E siamo al contraccolpo iniziale, perché la contrazione dei profitti per i produttori ne evoca subito un altro: lo spettro dei lavoratori che perdono il posto. ”I falsi allarmi lanciati sulla carne – avverte Coldiretti – mettono a rischio 180mila posti in un settore chiave del Made in Italy a tavola, che vale da solo 32 miliardi di euro, un quinto dell’intero agroalimentare tricolore”.
Si capisce, allora, il clima mesto dentro le aziende dell’insaccato. Benché la notizia non fosse affatto inattesa, la botta è stata durissima. Le principali industrie nazionali del settore hanno deciso di non intervenire direttamente e singolarmente. Per essere più sicure hanno anche “silenziato” gli uffici stampa esterni cui affidano abbondanti campagne di comunicazione. Qualche uomo del marketing, da dentro, confida l’angoscia e il clima che da 24 ore si respirano in ufficio. “Vengo ora dalla direzione, abbiamo parlato per tre ore solo di questo”, spiega trafelato. Tutti insieme hanno deciso di far gestire la cosa centralmente, da Roma. “Guarda, avremmo tanto tanto da da dire. Ma solo essere accostati ai titoli di queste ore sarebbe un danno incalcolabile. Abbiamo speso decine di milioni per fare campagne sul prodotto, se anche ti dicessimo delle cose vere sarebbero soldi buttati al vento per un’ingenuità”. Per questo nessuno si espone. “Ti posso però dire, e ho figli anche io, che quello studio con l’Italia non c’entra nulla, riguarda chi fa colazione a bacon e birra. Ora ti lascio, mi raccomando: non citarmi”.
Così la parola passa a Roma, all’associazione che da 24 ore gestisce direttamente la crisi dell’insaccato. Parla Davide Calderone, direttore di Assica. E fa capire chiaramente che quella in corso è prima di tutto una guerra di comunicazione. “Noi eravamo preparati, sapevamo che la Iarc aveva in corso questo studio. Eravamo anche allarmati del nuovo approccio che considera l’alimento e non la sostanza, ma certo non in condizioni di interferire sul libero studio di un’organizzazione internazionale scientifica”. Dal suo ufficio è partita la richiesta al Ministero della Salute di attivare il Comitato per la sicurezza alimentare perché verifichi “con giudizio scientifico se le indicazioni di quello studio sono realmente compatibili con i consumi e le produzioni italiane perché per noi non è così”.
E quindi ci dobbiamo aspettare il contro-studio? Magari la Lorenzin che mangia il prosciutto in diretta? “Spero che non ce ne sia bisogno ma non lo escludo”, dice Calderone. “E’ chiaro che esiste una questione di merito che vogliamo far valere e una di metodo, che deve passare per una comunicazione non scandalistica o emotiva. Le riduzioni giornalistiche e i titoli di questi giorni sono stati devastanti, anche se abbiamo finora spinto al massimo sulla struttura di comunicazione perché la notizia e le interviste uscissero con affiancata la nostra voce e perché questa fosse supportata dalle istituzioni italiane”.
Scusi, però. Questa suona come una difesa corporativa, condita anche dal ricatto occupazionale. “I titoli non rendono giustizia alla complessità della materia”, risponde l’Assica. “Bisogna controbilanciare la comunicazione per non lasciare spazio solo al messaggio che semplificando sta amplificando le paure. Paure per altro, dal nostro punto di vista, del tutto infondate”. Ecco, veniamo al punto. Come faremo a dimostrare che 22 esperti epidemiologi scelti dall’Oms hanno torto e dare ragione a una manciata di ricercatori italiani che – vivamente sollecitati dai produttori – diranno che in Italia va tutto bene?
“Il problema è il seguente. Lo studio epidemiologico assimila consumi e prodotti assolutamente diversi tra loro. Fa riferimento a una dieta basata sull’assunzione di 100 grammi al giorno di carne rossa e 50 di trasformata quando gli italiani ne mangiano meno della metà. Noi chiediamo solo di verificare con altrettanto rigore se quelle avvertenze siano valide anche per l’Italia, dove vive la popolazione che è seconda al mondo per la longevità, dove c’è una dieta diversa e universalmente riconosciuta come la più sana, e le produzioni e le lavorazioni nazionali delle carni sono fortemente orientate alla qualità. Non a caso abbiamo il record di produzioni di origine controllata. E’ tutto questo che dobbiamo difendere. E per farlo dobbiamo prima di tutto comunicare il nostro dissenso e poi supportarlo con dati scientifici che non sta a noi produrre ma agli organismi sanitari pubblici, alle società mediche e agli esperti incaricati dalle istituzioni pubbliche”.
articolo aggiornato dalla redazione web il 28 ottobre 2015