Nelle ultime settimane le tensioni relative alle isole artificiali, costruite dai cinesi nel South China Sea e avversate dagli Stati Uniti, ovviamente, e da gran parte dei paesi costituenti il Sud-Est Asiatico, quali per esempio Giappone, Australia, Filippine, Malesia, Taiwan e Borneo, sono tornate alla ribalta, tra le top news lanciate dai media internazionali.
La Cina maschera l’abile manovra geopolitica assicurando che le isole in questione sono state costruite con l’unico scopo di migliorare la navigazione in quella porzione di mare, infatti splendidi fari sono in costruzione, cestinando qualsiasi ipotesi di presente o futura militarizzazione.
Ora, parlando seriamente e ignorando i report di intelligence Usa che affermano una militarizzazione in corso, più di 5 biliardi di dollari solcano annualmente i mari in questione, che sembrano anche essere ricchi di risorse naturali.
Parlando legalmente, la regolamentazione internazionale e più precisamente l’International Law of the Sea, definisce le acque che rientrano all’interno delle 12 miglia nautiche dalle baselines nazionali (o generalmente la linea delle acque non profonde tracciata lungo la costa nazionale) come acque territoriali (art. 3). Questa precisazione chiarifica sostanzialmente la disputa che, semplificata, è la seguente: la Cina riconosce le acque circostanti le isole artificiali (fino alle 12 miglia) come proprie acque territoriali (un ottimo stratagemma per espandere i confini nazionali e sfruttare esclusivamente le risorse precedentemente elencate), mentre tutti gli altri no. Essenzialmente non si fanno i conti senza l’oste e quelle rimangono acque internazionali.
Se poi questa vicenda si contestualizza con il recente accordo raggiunto, concernente la Trans-Pacific Partnership (Tpp), che rappresenta un sostanziale incremento dell’influenza degli Stati Uniti nel Sud-Est Asiatico, e un relativo indebolimento della Cina dovuto ai noti “problemini” finanziari e ad un rallentamento della crescita economica (e la trasparenza dei dati in questo caso rimane un lontano miraggio), le tensioni regionali, di cui si è discusso prima, risultano essere geo-politicamente un tantino più piccanti.
Ciò che lascia più perplessi però è la retorica governativa, Fan Changlong (vice chairmen of the Central Military Commission) dice “We will continue to resolve disputes and differences with directly related parties through friendly consultation and are committed to working with relevant parties to maintain regional security and stability”. Poi, quando si pone direttamente la questione (a un esperto e consigliere governativo del Partito Comunista Cinese (Pcc) attualmente al potere, non solo la risposta è stizzita ed assertiva, ma la situazione dipinta è un idillio di relazioni amichevoli e cooperazione internazionale.
E’ chiaro che che lo sviluppo del Soft Power e l’aggressività non vanno proprio d’amore e d’accordo ma, per continuare con i detti popolari, “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, e, appunto, la realtà dei fatti è ben diversa.
Per concludere, oggi la marina militare statunitense ha inviato una sua nave (Uss Lassen) a navigare all’interno delle disputate 12 miglia nautiche di alcune di queste isole artificiali (Subi Reef, Mischief Reef), nell’arcipelago di Spartly, una chiara provocazione, certo, ma il benvenuto non è proprio stato dei più cordiali. Le autorità cinesi hanno inseguito e avvisato “l’invasore” e la retorica diplomatica ha preso una declinazione discretamente più accesa, per così dire.
Esistono molti comportamenti che nuocciono gravemente al sottolineato Soft Power, ed uno di questi è “predicare bene e razzolare male”.