Il fenomeno comincia ad essere visibile a tutti coloro che abitano nelle città, quanto meno in quelle di grandi dimensioni. Interi quartieri che un tempo erano popolari vengono abitati da una classe borghese ed essi cambiano totalmente il loro aspetto. E’ il fenomeno che va sotto il nome di “gentrification” (coniato dalla sociologa inglese Ruth Glass nel 1964), laddove il termine “gentry” è di origine anglosassone e sta a rappresentare la piccola nobiltà di campagna inglese.
In buona sostanza, la gentrification è quel fenomeno fisico, sociale, economico e culturale per cui un quartiere cittadino, generalmente centrale – ma non necessariamente – abitato dalla classe lavoratrice ed in generale da ceti a basso reddito, si trasforma in zona d’elezione per la più ricca classe media.
È un processo che si nota in tutte le città del mondo. Quartieri che un tempo erano abitati da un ceto medio basso, spesso anche o solo da immigrati, vengono ricolonizzati da una borghesia, talvolta semplicemente di ritorno. Ed i precedenti abitanti vengono spinti verso quartieri decentrati, spesso degradati della città. In Italia il fenomeno è evidente in diverse zone di grandi città, da Genova (il porto), a Torino (San Salvario, il Quadrilatero romano), da Milano (l’Isola, i Navigli), a Roma (il Testaccio, il Pigneto).
Cosa comporta questo fenomeno, che tra l’altro è spesso velocissimo e viene portato a compimento nel giro anche solo di pochi anni? Comporta innanzitutto un netto aumento di prezzi di compravendita ed affitto degli alloggi, il che garantisce che quel quartiere continuerà ad essere abitato dalla classe che l’ha occupato. Comporta altresì un cambiamento sicuramente a livello estetico dei palazzi, e la trasformazione di edifici un tempo ospitanti attività imprenditoriali in alloggi, quasi sempre di dimensioni piccole o medie, spesso in loft. Ma comporta anche e soprattutto una modifica sostanziale a livello di attività commerciali che vi si svolgono. Se un tempo il quartiere era popolare e sede di piccole attività operaie ed artigiane, una volta “gentrificato” (passatemi il termine) diventa sede pressoché esclusiva di terziario, con tanti locali a dirla all’inglese “trendy” o “fashion”. Buona parte dei quali rivolti alla ristorazione. Con relativi dehors, e privatizzazione di spazi pubblici.
Dato che il fenomeno, come dicevo, è simile nelle grandi città, ecco che interi quartieri di Londra, di Parigi, di Berlino, di Barcellona, di Milano o di Roma finiscono con il somigliarsi, a denunciare una omologazione culturale. È quella che Giovanni Semi, professore di sociologia all’Università di Torino, in una sua recente pubblicazione dal titolo appunto “Gentrification”, chiama la “Disneyland” delle grandi città. Una sorta di globalizzazione estetica e culturale. Che sta anche a rimarcare, seppure molto in piccolo, un fenomeno sempre più evidente nella nostra società: il divario fra chi ha e chi non ha, ed anche il distacco fisico fra chi ha e chi non ha. Anche se, nel caso della gentrification, non si parla esattamente di paperoni, ma di una classe media benestante. La gentrification assume l’aspetto di una emarginazione sociale. I quartieri vengono “risanati”, “rigenerati, “riqualificati”, e quella che è/era la “working class” spinta nelle zone più povere e meno servite della città.
Come dice esattamente l’antropologo Franco La Cecla: “La gentrification risponde all’esigenza di rendere le città più vivibili, meno degradate, ma è vero che questo processo di upgrading inevitabilmente elimina le opportunità che un quartiere povero e popolare offre a chi ci sta.”