Capita spesso che autori considerati fondamentali, siano stati ampiamente sottovalutati in vita, a scapito di contemporanei non sempre immuni alla prova del tempo. È il caso di un rigoglioso filone di compositori che, nella seconda metà del Novecento, ha continuato a scrivere musica sinfonica di importante valore per quelli che sarebbero potuti essere gli sviluppi successivi. Autori che sono rimasti decisamente nella penombra, a volte anche agli occhi di un pubblico bene informato.
Se dal 1980 in poi, la Tate Gallery di Londra ha iniziato a dedicare numerose esposizioni ad alcuni dei grandi pittori figurativi dimenticati, forse la pittura può insegnare qualcosa alla musica. Si tratta di mostre che ebbero uno straordinario successo, consentendo ad un vasto pubblico di riscoprire quadri di artisti straordinari, oscurati dalle avanguardie e dalle mode astrattiste-informali-installazioniste loro contemporanee. Ripercorrendo la recente storia della musica, viene il dubbio che un Dark Side of the Moon, un lato oscuro dimenticato, sia esistito anche in ambito musicale.
È opinione diffusa, anche tra un pubblico attento ed informato, che dopo Mahler, Bruckner e Strauss, derubricati da troppe storie della musica semplicemente come post-wagneriani, il sinfonismo si sia estinto come avvenne per i dinosauri. Un asteroide si è dunque realmente abbattuto su quella gloriosa tradizione musicale, lasciandoci un gigantesco cratere vuoto? Non intendo aprire una nuova polemica sul valore dell’asteroide, ovvero le avanguardie che avrebbero cancellato l’ingombrante passato che le ha precedute, vorrei piuttosto mettere in discussione – proprio con lo stesso spirito con cui alcuni paleontologi e astronomi mettono in dubbio le cause della scomparsa dei dinosauri – l’idea che ciò sia realmente avvenuto nelle proporzioni descritte. La musica, almeno per come la si è intesa per due secoli, è davvero finita con i post wagneriani? Di un certo modo di intendere la musica, davvero non possiamo che ammirare i fossili? Insomma, come è possibile che a metà del Novecento, siano spariti contemporaneamente tutti i compositori amanti della tradizione che li ha preceduti? (Continuo a ricordare a qualche mio lettore che non intendo accompagnare questo breve interrogativo con giudizi di valore).
Per anni, e mi permetto di aggiungere, in modo filologicamente poco corretto, si è fatto credere a intere generazioni di studenti, che le avanguardie musicali del secondo Novecento avessero totalmente ibernato tutto ciò che le aveva precedute in un passato lontano, siderale. La musica tonale, cristallizzata in un prisma come il vecchio Mago Merlino di Boorman, soggiogato dalla giovane Morgana… Una bella favola? Certamente una storia comoda, dato che, tra i vari optional, offre l’opportunità di relegare un’eredità alquanto ingombrante, in un museo delle cere. Non ne ho la certezza, ma l’evidenza mi sembra tutt’altra.
Il sinfonismo tonale (o quella che spesso chiamiamo genericamente musica classica), ha continuando a scorrere come un fiume carsico sotto la superficie delineata da certi movimenti avanguardistici dediti troppo spesso più a speculazioni linguistiche che alla costruzione di codici alternativi, volti a stabilire un contatto di qualsiasi natura, con un pubblico di qualsiasi natura.
Le prove? Alan Hovhaness, Henryk Górecki, Albéric Magnard, George Enescu, Marcel Tyberg, Siegmund Von Hausegger, Branislav Martinu, Louis Glass, Benjamin Britten, Aram Chačaturian, Cecil Armstrong Gibbs, Leevi Madetoja, e potrei continuare… Artisti che hanno continuato a scrivere musica nel senso più convenzionale del termine, evolvendo, per lo meno nelle intenzioni, da ciò che li aveva preceduti (o forse ricalcandolo legittimamente). Musicisti che hanno deliberatamente scelto di continuare a dedicare le loro composizioni a laghi, fiumi, montagne, prati in fiore, fanciulle, passioni umane, amori, danze popolari, ambientazioni alla Hans Sacks, ispirandosi, per dirla con Husserl, ancora al mondo della vita. Ecco, a questi compositori, sembra esser toccata, chi più chi meno, la stessa sorte di quei pittori che, volendo continuare a dipingere quadri figurativi, sono stati bollati come non innovativi o al passo coi tempi, e quindi, poco interessanti. Si pensi ad esempio a tutta la pittura inglese che fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento spese le proprie energie nel raccontare il mondo arturiano e alle ultime tele dei preraffaelliti…
Non si tratta di sostenere che questi autori (musicisti o pittori che siano) abbiano partorito solo grandi capolavori, né tanto meno di stabilire se la loro musica sia meglio o peggio di quella che li ha preceduti, od oscurati. Al contrario di quello che ci hanno inculcato certi maestri, l’idea che la musica debba progredire come una scienza o come la tecnica, superandosi sempre alla ricerca di un inquietante nuovo fine a se stesso, è un assunto del tutto arbitrario, profondamente discutibile ed esteticamente infondato. Cosa voglia poi dire esattamente, musica di ricerca, è questione su cui molti recenti studiosi iniziano giustamente ad interrogarsi. Segnalo in proposito il testo di Massimo Zicari, Ricerca e Musica (Zecchini Editore).
Quando dalla storiografia o dall’ascolto comune si cancellano interi archi storici, si commette un falso anche nei confronti del futuro. Si impedisce, infatti, a questo periodo la possibilità di essere fonte di ispirazione per chi lo segue. E se si pensa che sia la mediocrità di questi musicisti a renderli sterili nei confronti del futuro, si commette un altro errore storiografico. Piccole e modeste cose, ne hanno ispirato di grandissime. Si pensi, ad esempio, quali pagine straordinarie ha ispirato in Proust, una “piccola frase” a casa Ventuil…
Un pregiudizio, dunque, quello della metà del Novecento, che non ha risparmiato nemmeno autori come Max Steiner, Bronislau Kaper, Erich Korngold, Franz Waxman, Miklos Rosza, Bernard Herrmann e potrei proseguire, colpevoli non solo di aver continuato a comporre in modo tradizionale, ma di aver addirittura scelto di lavorare per il cinema… Inutile ricordare che tra le colonne sonore del cinema hollywoodiano, perlomeno dagli anni Trenta agli anni Sessanta, si annoverano diversi lavori sinfonici, tutt’altro che spregevoli.
Concludendo, sebbene citarsi è spesso di cattivo gusto, come mi è capitato di scrivere nella recente postfazione al testo di Jaques Barzun, Wagner. Critica di una eredità, la storia della critica non procede affatto come una sorta di marcia trionfale verso la verità. Occorre pensare ad essa piuttosto come ad un albero con molti rami, di cui alcuni crescono rapidamente, altri seccano del tutto ed altri ancora rinverdiscono all’improvviso. Mi sembra dunque giusto tentare di ridare un po’ di luce a quei rami che, in fondo, ci hanno donato frutti estremamente gustosi.