Parlando della motivazione delle sentenze, Piero Calamandrei scriveva che: “Si rappresenta scolasticamente la sentenza come il prodotto di un puro giuoco logico, freddamente compiuto su concetti astratti, legati da una inesorabile concatenazione di premesse e di conseguenze; ma in realtà sulla scacchiera del giudice le pedine sono uomini vivi, da cui irradiano invisibili le forze magnetiche che trovano risonanze o repulsioni, illogiche ma umane, nei sentimenti del giudicante”.
Eppure, a leggere la decisione del Consiglio di Stato di ieri che ha annullato le trascrizioni dei matrimoni gay contratti all’estero, più che una scacchiera sembra di vedere una piccola piazza di paese, le cui pedine sono quattro sentinelle schierate a difesa di un mondo che non c’è più.
Sono moltissime le coppie italiane dello stesso sesso che si sono sposate all’estero, in altri lidi del mare nostrum (e sono tanti) sui quali è possibile convolare a nozze con la persona che si ama, non importa se uomo o donna. L’hanno fatto (e continuano a farlo) perché da noi non si può, e ciò non perché la società italiana non sia pronta, come ancora sostiene qualcuno, ma perché chi ci governa ha deciso, ormai da tempo, di ridurre il tema dei diritti civili a un mero slogan elettorale, negandogli la consistenza di progetto politico concreto, come invece è avvenuto e avviene negli altri Paesi civili.
Così, le abbiamo prese di santa ragione (da ultimo) dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che lo scorso luglio ha condannato l’Italia per non prevedere alcuna disciplina in materia di unioni omosessuali (come ho spiegato qui), evidenziando tra l’altro, polemicamente, che “il governo ha esercitato persistentemente il proprio diritto a contestare queste pretese [di diritti]”. Una contestazione che ha trovato, nella questione della trascrizione di dette nozze nei registri comunali dello stato civile, la sua rappresentazione plastica più fedele, e anche più drammatica.
Il Consiglio di Stato doveva decidere se fosse legittima la circolare del Ministro dell’Interno Angelino Alfano che l’anno scorso aveva ordinato ai prefetti, previa intimazione ai sindaci, di annullare le trascrizioni effettuate da questi ultimi. Si noti che le trascrizioni erano avvenute vuoi in ragione dell’espressa richiesta delle coppie (secondo una pretesa di diritti “dal basso” in una congenita assenza di attenzione “dall’alto”), le quali avrebbero così ottenuto una certificazione utile a dimostrare l’avvenuto matrimonio all’estero, vuoi in virtù di una sentenza del Tribunale di Grosseto che le aveva considerate legittime alla luce della legislazione vigente.
Insomma, il governo con una mano ci ha più volte incantati a belle parole con lo slogan “le unioni civili si faranno”, ma poi con l’altra firma la condanna a morte dell’unico strumento (il certificato di matrimonio) in grado di assicurare, nel frattempo, la visibilità e la certezza giuridica di cui le coppie gay e lesbiche e le loro famiglie hanno bisogno. Aveva e ha ancora ragione, dunque, la Corte europea: il problema non è solo l’inazione, ma è l’aperto boicottaggio di ogni iniziativa volta a incardinare un discorso di senso compiuto sui diritti fondamentali.
Ora, se c’è una cosa che questi ultimi otto anni di battaglie giudiziarie ci hanno insegnato è che le unioni omosessuali non si collocano al di fuori del diritto, dove qualcuno vorrebbe ricacciarle volentemente, ma bensì al novero delle formazioni sociali costituzionalmente protette. Sono espressioni autentiche di libertà fondamentali. La Corte costituzionale e la Corte di Cassazione ce l’hanno ripetuto più volte.
Come fa allora il Consiglio di Stato ad affermare che il matrimonio gay è contrario “all’ordine naturale” (sic!)? Che esso è perciò del tutto “inesistente” e dunque “incapace, nel vigente sistema di regole, di costituire tra le parti lo status giuridico proprio delle persone coniugate (con i diritti e gli obblighi connessi) proprio in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio“? Non è stata forse la stessa Corte europea a spiegarci che il matrimonio è un diritto fondamentale e che, sebbene la sua concreta disciplina debba passare necessariamente per le aule del Parlamento, il paradigma eterosessuale non è più elemento fondante dell’istituto coniugale?
Non era peraltro il riconoscimento del loro matrimonio estero che le coppie ricorrenti cercavano, come ho precisato, bensì la sua semplice trascrizione, secondo una logica che appartiene all’esercizio di un diritto fondamentale.
Ma c’è un altro dato in questa sentenza sciagurata, ancora più inquietante. Nel 1938, quando Mussolini approvò le infami leggi razziali che vietavano il matrimonio “del cittadino di razza ariana con persona appartenente ad altra razza”, non si sognò neppure lontanamente di annullare le trascrizioni effettuate da ufficiali dello stato civile “distratti” o “eversivi” attraverso il braccio prefettizio. In ogni caso, infatti, recitava un’apposita circolare dello stesso anno, “la nullità [di queste ultime trascrizioni] può essere fatta valere anche d’ufficio dal Pubblico Ministero”. Da un giudice dunque, non certo da un ufficiale di governo. E invece per il Consiglio di Stato il governo ha fatto bene a cancellare le trascrizioni, spettando ai prefetti di procedere in tal senso.
Alfano, per il quale le unioni civili non sono un’emergenza nazionale, ha ben di che gongolare. Ma la verità è che sono queste continue prevaricazioni politiche e l’oscurantismo giudiziario che le accompagna, almeno dopo la sentenza di ieri, a costituire un’emergenza nazionale, un attacco alla democrazia e alla condizione di una minoranza.
Del fatto che, come diceva Calamandrei, “la missione del giudice è così alta nella nostra estimazione, la fiducia in lui ci è così necessaria”, in fondo oggi, mi pare, non possiamo essere più così tanto sicuri.