Senza nonni, l’ipotesi più papabile è di mandare il figlio all’asilo nido comunale, per la modica cifra di cinquecento euro al mese. Un amico impiegato nell’azienda di famiglia ha calcolato che alla fine dei cicli di nido, per ognuno dei suoi figli avrà sborsato 18.000 euro.
Niente di nuovo sotto il cielo italiano.
Secondo i dati di Cittadinanzattiva, la retta media degli asili nido italiani è di 311 euro al mese, con picchi di 440 euro in Val D’Aosta; la Calabria, con i suoi 164 euro è la più economica. Non ci vuole un genio a capire che appena si può, anziché drenare le proprie finanze, ci si muove per reclutare in prima linea i nonni a fare le veci delle tate comunali, salate quanto quelle del Principino George di Cambridge. Cosa succede quando non si naviga nell’oro e i nonni non possono aiutare?
Uno dei genitori resta a casa. Chi dei due – nella quasi totalità dei casi in Italia – lo sappiamo già tutti. Decidere di non mandare il figlio al nido non è solamente una scelta dettata dalle necessità economiche.
Staccarsi dal proprio figlio è digerito solo per cause di forza maggiore, vedi ritorno coatto sul posto di lavoro; quando è possibile, è cosa buona e giusta che la mamma resti a casa col pargolo. Perché “l’amore della mamma nei primi anni è fondamentale per la crescita psicologica del bambino”. Perché “il bambino che va al nido si ammala più degli altri”. Perché guai a voi a incontrare lo sguardo incanutito di qualche nonna che dietro il sorriso rugoso e accondiscendente, sibila di sghimbescio al marito un “povor putén” in dialetto.
Per la società italiana tutta mamma e distintivo, è contro natura, abominevole, quasi peccaminoso, voler dividere anzitempo il proprio destino da quello del figlio.
Poi però vai al bar sotto casa dove incontri sempre quelle due con passeggini, pappette bio e occhio vacuo, o al parco sedute sulla panchina più lontana e l’aria assente, e appena ti salutano eruttano in modalità ‘Esorcista’. E tra una sigaretta finita in due tiri e una voglia latente di mojito, ammettono esauste che non ce la fanno più. Che hanno parlato coi loro mariti e devono tornare a lavorare, altrimenti impazziscono, e anche pulire cessi va bene.
Perché ancora più innaturale di portare un bambino piccolo al nido, è una donna privata del suo destino sociale, che vede sfrecciare la propria vita di lato, sfiorandola.
E quanto si amino i propri figli non c’entra proprio un bel nulla. Dopo la prima figlia avevo perso il lavoro e sono rimasta a casa. Dal momento che ancora non lavoravo, ho fatto la seconda. Raccontavo agli altri, tra il contrito e l’abulico: “Sai, sono a casa, le tengo con me”.
Una forza intangibile e silenziosa mi suggeriva che così dovevo fare. Intanto il mio mondo si frantumava e i muri di casa stritolavano la vita come l’avevo conosciuta fino ad allora. In una manciata d’anni le cose sono cambiate, io e mio marito ci alterniamo al lavoro. Potremmo resistere fino alla scuola materna e tenere il nostro terzo figlio a casa con noi.
Ma abbiamo deciso di no. Non perché lo amiamo meno delle sorelle. Banalmente, siamo troppo stanchi. Il tempo per respirare, vivere dei propri ritmi, fermarsi all’occorrenza, sono elementi da non sottovalutare.
Il nido in paese è privato ma in convenzione col comune e ha tariffe oneste. E’ gestito da una signora conscia che il riscatto delle donne debba passare di prepotenza attraverso lo sgravio dai figli. La madre deve poter contare – specialmente in Italia dove immolarsi per i figli a scapito della carriera è un imperativo sociale – su un luogo professionale e abbordabile in cui i propri figli saranno felici. Così facendo lei cresce con loro, evolvendosi, oltre che come madre anche come individuo dall’autonomia definita.
Difficile dire se arriveranno prima gli asili nido a tariffa ridotta (di cui il governo per ora pare non interessarsi) o una nuova figura di mamma, libera pensatrice svincolata dalle aspettative sociali.
Nell’attesa di vedere cosa accadrà, mando mio figlio al nido senza alcun senso di colpa.