Francesco De Gregori ti odio. Odio la tua sfacciata antipatia. Odio il tuo fingerti superficiale. Odio il tuo aver scritto siffatti capolavori messi lì, nella stessa biografia a poche righe dai duetti con Ligabue e Fedez. Odio il fatto che non sei tu, ma in realtà sei tu, o forse sono io. Nei fatti, Francesco De Gregori ti odio.
Appurato questo, passiamo alla mera cronaca musicale. Domani esce Francesco De Gregori canta Bob Dylan – Amore e furto. Oggi c’è stato l’ascolto per la stampa e la conferenza stampa di presentazione. Ci sono andato con ancora in mente la sua comparsata al concerto de Il Volo, e con al suo fianco Fedez e Elisa all’Arena di Verona, carico di pregiudizi e pronto a farmi giustizia da me. Fedez, Santo Dio Chiaro, stavolta c’era di mezzo Dylan, non Fedez, ma non potevo che rimanerne deluso, lo sapevo.
L’album è stato anticipato da Un angioletto come te, traduzione di Sweetheart like you, prima traccia dell’album. Probabilmente il brano più significativo del lavoro. Non il migliore, intendiamoci, ma quello che meglio racchiude e esprime le intenzioni di De Gregori con questo lavoro. Una sorta di riproposizione pedissequa del mondo dylaniano, con traduzioni più letterali (la traducibilità dei testi è stata in parte determinante per la scelta dei brani, ci ha detto in conferenza stampa, stranamente logorroico, facendo esempi concreti, intrattenendosi nei dettagli) che libere interpretazioni poetiche. Con un cantato, addirittura, che tende alla mimesi con quello di Bob Dylan, stessi miagolii acuti, appoggiati su parole che, in questo De Gregori è stato gigantesco, permettono alla perfezione la mimesi, traduzioni letterali che suonano come onomatopee, magari sacrificando alcuni versi, ma sempre con coerenza e fedeltà, se vi sembra poco.
Gli altri brani sono altrettanto dylaniani nella trasposizione poetica, un po’ meno imitativi nell’interpretazione, salvo rari casi, per quanto possa essere poco dylaniana l’interpretazione di uno che ha sempre dichiarato il proprio amore per il cantautore americano, e che se anche non lo avesse dichiarato a parole lo ha sempre dichiarato nei fatti, con una scrittura spesso altrettanto mimetica, al limite del furto ben dichiarato nel sottotitolo, a sua volta omaggio a Love and theft. Ecco, se Dylan è stato l’impressionista della musica rock, parole del Principe, lui lì a abbattere prospettive coi suoi accordi, De Gregori è stato il suo epigono italiano.
Del resto la presenza in scaletta di un rifacimento della deandreiana Via della povertà, Desolation row, uscita nel 1974 in Canzoni del cantautore genovese, indica già in maniera precisa come di amore che arriva da lontanissimo si tratti. Un amore che ha spinto De Gregori a studiare a fondo il lavoro del menestrello di Duluth, fino a scegliere brani assolutamente non scontati, ricercati, improbabili. Niente superclassici, quindi. Nessuno dei brani che chi non conosce Dylan inserirebbe in un Greatest Hits (un Greatest Hits di Dylan, Dio mi fulmini), solo brani volutamente recuperati tra i cosiddetti minori (minori, Dio mi strafulmini). Sarà stata la classica mossa di un radical chic ormai stanco, mi ero detto prima di ascoltare l’album, affilando la punta alla matita rossa. Ecco, a leggere gli undici brani in tracklist, a sentire i suoni fedeli a De Gregori tanto quanto a Dylan, si capisce come di puro atto di amore si tratti, forse addirittura eccessivo, come a voler scrivere sulla parete del Duomo di Milano: “ti amo, tesoro”. Amo Dylan e lo rifaccio fedelmente, tranne le versioni distanti musicalmente dagli originali di Come il giorno e Via della povertà, in cui manca l’armonica, assente in tutto il disco, scegliendo brani che solo chi ama Dylan conosce, gente come me.
“Ti amo, tesoro”, dove il tesoro in questione è Dylan, la tavolozza la facciata del Duomo di Milano, le canzoni di Dylan, ma a scriverlo non è un ragazzino armato di bomboletta, ma Michelangelo. Francesco De Gregori canta Bob Dylan – Amore e furto è un atto d’amore. Senza furto. L’ascolto potrebbe forse spingere verso la noia, se disattento, ma a coglierne il valore filologico, o anche solo a cogliere la sonorità delle parole scelte da De Gregori per rendere omaggio a chi della sonorità delle parole è un maestro indiscusso viene da rimanere disarmati.
Ti odio, Francesco De Gregori, che mi disarmi quando ero sicuro di poter bruciare il tuo cadavere su una pira immerso nel Gange. Già pensavo cosa avrei scritto di fronte alle tue storpiature dylaniane. Per questo ti odio. Perché dopo aver vivacchiato negli ultimi anni con prove discografiche discontinue, quasi sempre sotto i tuoi standard di un tempo, dopo aver collaborato con gente che in un mondo giusto si occuperebbe d’altro, dopo aver associato la tua voce e la tua immagine a iniziative che ci hanno fatto rimpiangere il Palalido e il suo processo sommario, hai tirato fuori dal cilindro un album che, al pari di quello con Giovanna Marini di ormai diverso tempo fa, riconcilia con la tua storia. Ti odio Francesco De Gregori. No, in realtà ti amo, Francesco De Gregori.
Ti amo, al punto che avrei preferito in passato inchiodarti su una tela, come si fa con le farfalle, per preservare dall’usura del tempo la bellezza di quanto avevi fatto. O ti avrei infilato dentro le pagine di un libro, come si fa coi fiori che ci hanno regalato nelle occasioni importanti. Ti amo, e stavolta non te lo dirò incidendolo con un chiodo arrugginito sulla fiancata della tua auto nuova. Te lo dico e basta.