Dicono di averla vista nel buio della sera mentre camminava avanti e indietro per l’isola dei musei, vicino al suo appartamento berlinese, ripetendo tra sé e sé “wir schaffen das“, “wir schaffen das“, “wir schaffen das” (“ce la facciamo”). E’ la frase che Angela Merkel dice nelle conferenze stampa, nelle interviste e nelle comunicazioni ufficiali, dalla parrucchiera e al supermercato a chiunque le faccia la fatidica domanda: “come la mettiamo con i rifugiati?”. “Wir schaffen das” e più non dimandare.
Da quando ha spiazzato tutti, a fine agosto, dicendo che il trattato di Dublino è sospeso e che non ci sono tetti massimi alla solidarietà e all’accoglienza, l’aria in Germania si è fatta sempre più sottile. Molti parlamentari ribelli del suo partito (Cdu/Csu), che di solito abbaiano ma si guardano bene dal mordere (anche perché non ci sono vere alternative a mamma Merkel), dicono che ora vogliono fare sul serio, sostituendo addirittura la cancelliera con il ministro delle finanze Schäuble. Intanto il flusso di rifugiati non accenna a diminuire, i comuni sono sotto stress, a Dresda e altre città si ingrossano i cortei anti-Islam e il nuovo partito populista di destra AfD manda in televisione personaggi con gli occhi spiritati e la parlantina sciolta che tirano fuori bandiere tedesche da tutte le tasche. Chi riuscirebbe a stare sereno con un tensione del genere?
Le implicazioni politiche della linea Merkel sui rifugiati sono state ampiamente sviscerate. C’è però un’importante componente psicologica, o meglio psicanalitica, che finora è stata trascurata. La Germania è un Paese in cui la vita quotidiana viene programmata al millimetro, in cui chi torna a casa dalle vacanze non vede l’ora di rispondere agli amici che chiedono “com’è andata?” con la frase liberatoria “es hat alles geklappt” (“ha funzionato tutto”). Sì, ok, ma vi siete divertiti? Che domanda. Cosa importa se ci si è divertiti o meno davanti alla perfezione delle coincidenze, alla puntualità degli aerei e della consegna delle valige, alla corrispondenza della stanza dell’hotel alle foto del sito? E’ un Paese dove ogni piccolo incidente (un cane che morde un polpaccio, un pargolo che rovina con la pipì il materasso di un amico, ecc.) si risolve con l’intervento della compagnia di assicurazione.
La – respirate profondamente prima di leggere tutto d’un fiato – Haftpflichtversicherung (assicurazione contro i rischi di responsabilità civile verso terzi) è la prima cosa che si fa a un bambino quando nasce: se ti avvicini ai quaranta e non ce l’hai e i tuoi amici o congiunti lo scoprono, come minimo ti guardano di traverso. Com’è possibile, in un Paese del genere, che Angela Merkel si permetta di dire che “non si sa con precisione quanti rifugiati arriveranno“. Come non lo sa? Com’è possibile? E poi, una volta arrivati, “non si sa quanti resteranno e quanti partiranno per altri paesi”. Ma siamo tutti impazziti?
La cancelliera ha lanciato, probabilmente in modo inconsapevole, una sfida all’inconscio del suo popolo, alle paure profonde di una nazione. Ha ricordato che nella vita, come nel monopoli, esiste anche la terribile carta degli “imprevisti”. E’ una scelta che potrebbe costarle molto cara. Per questo, il 7 ottobre, si è fatta invitare al faccia a faccia con la giornalista Anne Will sul primo canale per poter ripetere urbi et orbi “wir schaffen das“. L’ultima volta l’aveva fatto nel 2009. Ma erano altri tempi, il mondo era ancora relativamente in ordine. Ora corrono tempi bui dei quali non si intuisce la fine. Quindi riipetiamo insieme “wr schaffen das” la mattina, il pomeriggio, la sera e la notte prima di andare a dormire. Chissà, magari alla fine funziona.