Con il mese di Ottobre termina la campagna Fiocco Rosa 2015, dedicata alla prevenzione del carcinoma del seno. È stato senza dubbio un mese di vigorose contestazioni, centrate sul tema dell’uso strumentale del corpo femminile e più in generale dell’appropriatezza delle immagini divulgate. Nel vorticoso susseguirsi delle azioni e delle reazioni, mi ha colpito ancora una volta l’insistenza su una parola molto di moda, comparsa perfino nelle risposte istituzionali alle critiche: “polemica”. Un termine “pigliatutto” che, come da definizione, implica: “intransigenza, totale mancanza di obiettività”, etichettando “posizioni provocatorie spesso fini a se stesse”.
A bilanciare il peso delle “polemiche” si è profilata un’altra etichetta retorica, molto interessante per chi si occupa di strategie comunicative. Mi riferisco a “le buone intenzioni”.
Al riguardo, poco si è detto della declinazione milanese della campagna Fiocco Rosa: in questo mese i più importanti ospedali di Milano hanno ospitato per la Lilt una mostra fotografica itinerante – fino al 30 all’ospedale Humanitas di Rozzano. Claim della campagna: #Fatelevedere, parto creativo offerto pro bono (cioè: gratuitamente) dall’agenzia pubblicitaria Tbwa.
Una “provocazione buona”, garantisce l’ufficio comunicazione della Lilt di Milano. E un’altrettanto bonaria sollecitazione: invitare le donne a caricare tramite una web app dedicata le proprie immagini, con lo slogan ben visibile all’altezza del seno. La speranza, ovviamente, è che il messaggio diventi virale.
Più o meno negli stessi giorni, leggo su Adnkronos la notizia di un’ altra iniziativa (di cui volontariamente non offro dettagli né link). Una giovane fotografa/modella romana diffonde da mesi, sui social, gli scatti del proprio seno associato a un piatto cucinato.
Non tardano i riscontri. A viralità raggiunta, la fotografa/modella decide di utilizzare la spinta di un’idea nata per “farmi due risate, per soddisfare il mio sano esibizionismo” per una buona causa: la lotta al tumore del seno. Dribbla le critiche con gli strumenti che ha: “non uso la beneficienza per le tette, ma le tette per la beneficienza”. Adnkronos si sbilancia: “anche se c’è già chi storce il naso, l’iniziativa portata avanti su Instagram e Facebook è lodevole”. Parte l’appello: tutte le donne sono invitate a partecipare con una propria foto e si progetta di dare alle stampe un ricettario fotografico – cito – “in stile tette e cibo”, il cui devoluto andrà alla Lilt. Ciò basta ad ottenere il patrocinio della Lilt di Roma.
Tutte queste iniziative si moltiplicano esponenzialmente proprio nel momento in cui un altro hashtag raggiunge il picco della popolarità: chi non è incappato nel goliardico #Escileminne, o anche #Escile? Invito prontamente accolto da una modella semi-sconosciuta, e divenuto rapidamente meme e impareggiabile tentazione, in contesti a volte distanti da risate e leggerezza.
Le “buone intenzioni” applicate alla comunicazione sociale devono quindi essere inquadrate molto seriamente, a partire da un dato di fatto: non sono un criterio d’analisi dei testi. Né una riprova della loro qualità e coerenza in rapporto agli obiettivi del messaggio. I cortocircuiti nelle strategie comunicative rivolte al sociale, e in particolare di quelle rivolte alla tutela della salute, hanno infatti una lunga tradizione di doppi sensi: ricorrenti stili di rappresentazione, ricorrenti claim.
“Fuor di polemica”, emergono almeno due ordini di problemi. Il primo riguarda l’uso, e l’abuso, di codici commerciali per testi ad obiettivo sociale. In una campagna sociale la posta in gioco è un cambiamento di comportamenti e credenze rilevanti per il singolo e per la collettività. È sottintesa una gerarchia di competenze fra chi emette il messaggio e chi lo riceve. Vale a dire che è in causa l’autorevolezza dell’istituto che valida la campagna, la sua “credibile coerenza” a un assetto di valori più ampio della specifica mission del messaggio. È un tema particolarmente importante in un momento di diffusa fragilità di consenso, e di riconoscimento, delle “fonti autorevoli”.
Questo investe frontalmente anche il problema della strumentalizzazione del corpo femminile. Così come – attenzione – anche di quello maschile, sebbene con stili non identici. Il secondo problema è invece di ordine generale. Riguarda la clamorosa banalizzazione delle strategie comunicative, e una loro diffusa sottovalutazione. Questioni di cui, fra l’altro, non dovrebbe certo rispondere il testimonial della campagna. A questo proposito è stato illuminante il comunicato stampa divulgato dal presidente della Lilt, nei giorni della contestata campagna nazionale:
“(…) Peraltro, non si ritiene di essere stati neanche tanto originali, dal momento che nel web tante sono le immagini di campagne simili a questa. (…) Nessun intento offensivo era, ovviamente, nelle intenzioni.
E ancora:
“Fintanto che tale polemica porta in primo piano esclusivamente il messaggio della campagna “Fai prevenzione, proteggilo anche tu” – e che tutte le donne, soprattutto le più giovani, vengono così informate sull’importanza della prevenzione – allora ben venga! Infatti, oggi tutti parlano della campagna Nastro Rosa, ma sia alla presentazione della XXIII edizione della campagna, che in riferimento ai comunicati stampa diramati dalla Lilt, al riguardo i media non hanno ritenuto di dar “voce” alcuna”.
Un notevole autogol, che elimina ogni dubbio su una trasversale incultura della comunicazione, rilanciando il principio dilettantistico del “purché se ne parli”.