Per il quinto anno consecutivo cala la libertà in Rete. I governi di molti Paesi hanno incarcerato blogger e attivisti online e, con quello che viene definito il nuovo trend della censura, i grandi colossi web come Facebook o Google hanno fatto pressioni su aziende locali o singoli utenti per rimuovere i contenuti sgraditi. E’ quanto emerge dall’ultimo rapporto Freedom on the net dell’americana Freedom House, che analizza la situazione in 65 Paesi e piazza al primo posto l’Islanda e all’ultimo la Cina (la Corea del Nord non è compresa nel rapporto).
In particolare, è il Medio Oriente ad essere sotto osservazione, anche se pure i Paesi democratici hanno fatto qualche passo indietro a seguito del via libera a provvedimenti antiterrorismo. E’ il caso – ad esempio – della Francia, che ha subito l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, e dell’Australia.
Parigi scende di quattro punti rispetto allo scorso anno, mentre l’Italia ne perde uno dopo l’approvazione delle nuove norme contro il terrorismo che obbligano gli Internet service provider a conservare i dati relativi agli utenti da 12 a 24 mesi. Freedom House spiega però che le “violazioni dei diritti di chi usa il web non sono molto comuni” nel nostro Paese, nonostante la legge sulla diffamazione rappresenti una “minaccia” per giornalisti online e utenti dei social media a causa delle ambiguità di applicazione al mondo Internet. In sostanza, sui 65 Paesi monitorati, il report rileva che il 31% dei loro cittadini è libero, il 22,7% lo è parzialmente e il 34,3% non lo è, mentre per i rimanenti manca una valutazione chiara.
In generale, i governi puntano a limitare la libertà in rete attraverso la rimozione di contenuti tramite pressioni, arresti e leggi che spingono gli Isp a esercitare una “censura preventiva”. Poi ci sono anche software, come ad esempio FinFhisher, per mettere sotto controllo avvocati, attivisti e membri dell’opposizione. Infine, strumenti per contrastare la criptazione dei dati e impedire l’utilizzo dell’anonimato in rete. Tutti sforzi repressivi che, però, sottolinea il dossier “resta da vedere se saranno sostenibili nel lungo periodo”.