Apprendere che Maurizio Abbatino, estromesso dal programma di protezione, abbia forzatamente deciso di tornare ad abitare a Roma, in zona Magliana, più che stupirmi, umanamente mi amareggia e professionalmente mi preoccupa. Non ho alcun titolo per intervenire, istituzionalmente, sulla questione, ma ho un problema di coscienza che mi spinge a farlo: Maurizio Abbatino iniziò con me, illo tempore Giudice Istruttore, la sua collaborazione, e da me ottenne – tramite il Capo della Polizia – le garanzie per la sua protezione, in conformità a quella che era la legge del tempo sui collaboratori di giustizia.
Personaggio di spicco della cosiddetta “banda della Magliana”, Maurizio Abbatino, nel lontano 1992 fu tratto in arresto in Venezuela, dove s’era rifugiato, a metà degli anni Ottanta, a seguito di una rocambolesca evasione da una nota clinica romana: doveva scontare una pena detentiva, essendo stato condannato come capo, costitutore e organizzatore dell’associazione per delinquere denominata cosiddetta banda della Magliana. Secondo i giudici che avevano emesso quella sentenza di condanna, egli era anche l’unico partecipe di quel sodalizio, tutti i coimputati essendo stati assolti.
Durante la sua latitanza venezuelana, durata più di cinque anni, a Roma era accaduto di tutto: Claudio Sicilia aveva collaborato con gli inquirenti, svelando fatti e misfatti della consorteria criminale; era stato emesso nei confronti di numerosissimi imputati un ordine di cattura, per una serie interminabile di reati, dall’omicidio all’estorsione, dalla rapina al porto illegale di armi, dalla ricettazione all’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, fino all’associazione per delinquere di stampo mafioso. Gli effetti di quel provvedimento restrittivo della libertà personale, adottato dal pubblico ministero, erano stati ben presto caducati da una decisione del Tribunale del riesame; il relativo processo era finito nel dimenticatoio, ma non era stata dimenticata la “cantata” di Claudio Sicilia, il quale, abbandonato frattanto a se stesso, era stato ammazzato, mentre, una sera di novembre del 1991, si trovava all’interno di un negozio di scarpe, sulla via Cristoforo Colombo. Fra il 1989 e il 1990, peraltro, si erano susseguite sanguinose rese dei conti: sul terreno erano rimasti, fra gli altri, Edoardo Toscano ed Enrico De Pedis, ma anche il fratello di Maurizio Abbatino, Roberto. Eppure, nel 1991, l’allora prefetto della Capitale, con frasario che ricordava lo sprezzante rifiuto di Macbeth di farsi intimidire dalle notizie riferitegli (Till Birnam wood remove to Dusinane / I cannot Taint with fear), dichiarava che “Se la mafia è intesa come una foresta che soffoca le città, a Roma ci sono soltanto alcuni alberi”.
Dopo un travagliato procedimento estradizionale, interrottosi a seguito della sua espulsione dal Paese di rifugio, Maurizio Abbatino rientrò in Italia e scelse di collaborare: nei suoi verbali non troverete mai la formula con cui si spiegano i motivi di alto valore morale e sociale, con cui, travisando gli scopi reali della propria scelta, che è sempre e soltanto una scelta puramente utilitaristica, i collaboratori si accreditano come “pentiti”. Troverete, invece, il racconto, lucido e sobrio, di una lunga esperienza criminale; il disvelamento degli interna corporis del sodalizio denominato a cui aveva contribuito a dare vita; la puntuale narrazione dei reati commessi nel perseguimento dello scopo sociale, dagli affiliati; la spiegazione delle strategie finanziarie della consorteria e le incursioni di taluni associati in affari criminal-politici; ma anche le cause delle rotture interne all’associazione originaria e, dunque, della sanguinosa faida che ne decimò gli affiliati, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.
I processi scaturiti dalle rivelazioni di Maurizio Abbatino, la cui collaborazione attraversò tutti gli anni Novanta del secolo scorso e si protrasse per quasi tutto il primo decennio di questo secolo, s’incaricarono di dimostrare, finalmente, come la banda della Magliana fosse per contro realmente esistita e avesse, inesorabilmente, infiltrato e inquinato il tessuto socio-economico e culturale della Capitale, con buona pace di chi, ne aveva pervicacemente negato l’esistenza. Quei processi, dato il loro clamore mediatico hanno avuto, però, l’effetto non meno distorsivo della realtà di consegnare la banda della Magliana alla mitologia, sicché le odierne cronache giornalistiche, considerato il forte appeal che quell’associazione di malfattori grazie soprattutto ai film e alle fiction, esercitano sull’immaginario collettivo, concorrono a farla rivivere, sia pure in modo assolutamente virtuale, quasi per effetto del sortilegio d’una fata Morgana mediatica, ogni volta che qualche evento criminale funesta Roma e il suo hinterland, sol che si sospetti vi possano essere implicati soggetti che ne abbiano fatto parte, in tempi comunque ormai remoti, ovvero loro eredi o aventi causa.
E di omicidi che hanno visto coinvolti vecchi sodali o personaggi che ruotavano intorno ad essi o che con essi avevano avuto contrasti e conflitti, se ne registrano parecchi, negli ultimi anni, di cui alcuni rimasti senza colpevole. A prescindere dall’ovvia considerazione che Maurizio Abbatino potrebbe costituire un fattore di rischio per gli autori di tali crimini ancora in circolazione, non può ragionevolmente, ritenersi cessato il pericolo a cui è esposto per la sua collaborazione, rappresentato da tutti i condannati a varie pene detentive, a seguito delle dichiarazioni accusatorie del collaboratore, quasi che, al di là delle mere petizioni di principio, l’espiazione della pena escluda la pericolosità sociale e la volontà di vendicarsi di chi già appartenente a un’efferata organizzazione criminale, abbia trascorsi 5, 10 o magari 15 anni della sua vita in carcere, a seguito della chiamata in correità dell’antico sodale fattosi “infame”. La vendetta, del resto, si sa è “un piatto che va servito freddo”.
Voglio, dunque, chiarire le ragioni della mia umana amarezza: sarà pure stato un criminale sanguinario, Maurizio Abbatino, ma oggi è un uomo non più giovane, malato e privo di mezzi di sussistenza, sostanzialmente impossibilitato a reinserirsi socialmente, stante il suo passato e lo stato di detenzione domiciliare in cui si trova e rimarrà per tanti anni ancora; se costretto, dunque, a lasciare l’alloggio di cui ha fin qui fruito in “località protetta”, non gli resterà che cercare altrove ricovero, comprensibile che abbia voglia di tornare dove ha ancora la possibilità d’avere un tetto sulla testa e un minimo di assistenza, anche se questo significherà esporsi a incalcolabile rischio. Ebbene, la mia coscienza, sapendolo obiettivamente esposto a grave pericolo, non si appaga di giaculatorie autoconsolatorie del tipo: “non si può pretendere di stare sotto protezione a vita”.
Singolari le cadenze dell’estromissione di Maurizio Abbatino dal programma di protezione: deliberata alcuni giorni dopo la deflagrazione dell’inchiesta “Mondo di mezzo”, presto ribattezzata “Mafia Capitale”, messa in esecuzione alla vigilia del dibattimento. La Commissione in questione, istituita presso il ministero dell’Interno, è composta da un Sottosegretario di Stato all’Interno che la presiede, da due magistrati e da cinque funzionari e ufficiali preferibilmente scelti tra coloro che hanno maturato specifiche esperienze nel settore e che siano in possesso di cognizioni relative alle attuali tendenze della criminalità organizzata, dunque da persone in grado di cogliere come tra la storia criminale illuminata dalle rivelazioni di Maurizio Abbatino e quella messa in luce dall’inchiesta “Mondo di mezzo” le “significative ricorrenze”, sottolineate dal Procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, in occasione dei primi arresti, il 2 dicembre 2014: “Ritornano dei cognomi. Si rivede un metodo. Si apprezza una capacità criminale di tenere insieme attori diversi: malavita, camorra, ’ndrangheta, mafia. Abbastanza per pensare che le traiettorie del vecchio gruppo criminale non si siano esaurite con la sua dissoluzione”. Or bene, delle due l’una: o gli esperti della Commissione centrale non hanno colto quelle “singolari ricorrenze”, o perché non vi sono o perché non in grado di coglierle, ovvero le hanno colte fin troppo bene. In ogni caso, la deliberazione della Commissione centrale suona campane a morto per il processo che si va a celebrare: o non è chiara o non è convincente la prospettazione accusatoria, tanto da non esserne state colte le implicazioni da parte degli esperti, per quanto di competenza della Commissione; ovvero la prospettazione accusatoria è fin troppo chiara, ma allora il trattamento riservato a Maurizio Abbatino potrebbe veicolare un messaggio devastante per coloro che volessero scegliere una strategia improntata alla collaborazione: “Attenzione a quel che fate, che qui vige il principio del “si usa e si getta”.
Di qui la preoccupazione professionale che la vicenda suscita in un giurista attento alle dinamiche culturali, sociali, politiche e criminali che attraversano Roma e, più in generale, il nostro Paese.