Nel pieno della sua quarantennale latitanza, negli anni Ottanta il boss di Cosa nostra si sarebbe nascosto anche in un alloggio del Comune, senza che l'amministrazione "se ne accorgesse o, magari, volesse rendersene conto", ha spiegato il primo cittadino Patrizio Cinque. Nel giorno in cui 22 persone sono state arrestate in una grande inchiesta sul pizzo
Non abitava solo in una sontuosa villa antica nel centro della città. Non si nascondeva soltanto alla Icre, lo stabilimento che produceva tondini di ferro del boss Leonardo Greco, che usava come ufficio e che avrebbe fatto anche da “campo di sterminio” di Cosa nostra. Nel suo rifugio di Bagheria, capitale anni ’80 della sua latitanza, Bernardo Provenzano avrebbe vissuto, infatti, anche in una casa popolare del Comune. A raccontarlo nel giorno dell’operazione antimafia che ha colpito 22 padrini di Cosa nostra, è Patrizio Cinque, eletto nel 2014 sindaco di Bagheria dal Movimento 5 Stelle. “Bernardo Provenzano ha abitato per un periodo in una casa popolare di Bagheria senza che il Comune se ne accorgesse o, magari, volesse rendersene conto. Noi abbiamo girato tutte le informazioni del caso ai carabinieri”, ha detto il primo cittadino, raccontando un’informazione fino ad oggi inedita. Notissimo, invece, era il fatto che Provenzano avesse una predilezione per Bagheria, fino dagli anni Ottanta. È in quel periodo che Cosa nostra si rafforza sul territorio, infiltrando ogni settore della cittadina: a cominciare dall’imposizione capillare del pizzo.
L’operazione condotta oggi dai carabinieri del nucleo investigativo ha, infatti, spezzato una catena estorsiva lunga decenni: fondamentale è stata la collaborazione dei commercianti, per troppo tempo vessati dai vari boss che si sono alternati alla guida del mandamento di Bagheria. Indicativo il caso dell’imprenditore Domenico Toia: negli anni ’90 comincia a pagare una messa a posto di tre milioni di lire alla famiglia del boss Pino Scaduto, finito in carcere. Poi, quando il potere passa a Nicolò Eucaliptus, gli venne ordinato di “immettere liquidità nel Bagheria calcio, ripianando i debiti ed investendo denaro da lui gestito, per un totale di circa 400 milioni di vecchie lire”. Quindi è il turno di Onofrio Morreale, che chiedeva a Toia “denaro per pagare spese legali dei carcerati e per le loro famiglie”. Una staffetta del racket, l’ha battezzata il procuratore aggiunto Leonardo Agueci, riferendosi al fatto che “le vittime restano le stesse, ma cambiano i riferimenti mafiosi”. E alla fine un’imprenditore facoltoso, come era un tempo Toia, si è ritrovato a morire nel 2014 in stato d’indigenza: aveva fatto in tempo, però, a indicare i nomi dei suoi estorsori agli inquirenti.