Per vedere certi film, ormai, devi per forza andare in provincia. Salvo rarissime eccezioni, infatti, i multisala cittadini escludono dalla programmazione quelle pellicole che, in una popolazione accuratamente assopita nel corso degli anni, rischiano di stimolare troppe domande. E, soprattutto, qualche risposta.
Sorvolo sulla prova superlativa di Vincent Lindon (miglior attore a Cannes), che viene inquadrato praticamente in ogni scena del film. Sorvolo sul fatto che in un film di un’ora e mezzo, dalle atmosfere così rarefatte da risultare claustrofobiche, e dai dialoghi pesanti come macigni sulle gengive, si arrivi alla scena finale che sembrano passati sì e no venti minuti. Non fai in tempo a chiederti: “E adesso?”, che partono i titoli di coda. Tutto finito. E adesso?
Adesso tocca a noi. Anzi, a voi.
“La legge del mercato” è la storia, senza alcuna retorica né sconti, dell’odierno mercato del lavoro, sviscerata e sbattuta sul tavolo della nostra coscienza, dal microcosmo della vita del protagonista, che a 51 anni si ritrova a piedi, con una moglie, un figlio disabile, un mutuo sulla casa e una determinazione dentro da far impallidire il Russel Crowe de “Il gladiatore“.
Non c’è rabbia, non rassegnazione, non rivalsa, non eroismo. C’è l’irriducibile fatalismo di chi ha scelto di godersi ogni attimo della propria vita perché sa di meritarselo, raddrizzando la schiena fino a inerpicarsi in cielo, ma senza cedere di un millimetro all’imperativo assoluto dell’etica. L’aspetto sensazionale è che non sentirete mai nei dialoghi una sola sillaba di retorica, né avvertirete una goccia di miele, né un moto di compassione. A parlare è infatti la muta e razionale insofferenza di un uomo in carne e ossa, che si ritrova a combattere una battaglia in solitaria contro un mondo pervaso di cliché e di protocolli comportamentali asfissianti e al tempo stesso impalpabili (la scena della compravendita della mobilhome è in questo senso esemplare…io sentivo freddo, vedendola). Un mondo grigio, distante, estraneo…ormai del tutto incapace – perché disabituato – di contemplare un pensiero, un’emozione, una scintilla. E’ la vicenda commovente di un uomo che rifiuta di aderire a un modello che altri gli hanno prescritto e costruito addosso. La sua battaglia si gioca fuori, ma è combattuta tutta dentro, grazie proprio alla magistrale interpretazione del protagonista. Che, per esempio, non intende vendicarsi del precedente datore di lavoro che lo ha licenziato (“Quell’energia va destinata a una miglior causa, a conquistarci una vita serena”… ho ancora i brividi), non rincorre l’auto di maggiore cilindrata, non desidera ciò che è perfettamente consapevole di non poter avere (perché, fatalmente… non gli spetta). Vuole legittimare il suo spazio nel mondo e – questo sì – vuole rivendicare il suo diritto alla vita e al rispetto sociale, con l’urlo silenzioso ma perentorio di chi, sapendo di non avere nulla da farsi perdonare, pretende di non scendere a compromessi con la propria colonna vertebrale.
Due scene su tutte. Il colloquio di lavoro via Skype, che introduce il regno del giudizio universale da bancarella, questa volta affidato al selezionatore di turno (“Se mi permette un commento, il suo curriculum non è molto chiaro.”), e – scena che fa venir voglia di scagliare qualcosa contro lo schermo – l’assessment di gruppo sulla sua performance registrata e riprodotta in video, in cui tutti i ragazzini candidati lo vivisezionano in pubblico per guadagnare punti col selezionatore, mentre lui li fissa uno ad uno e li ascolta senza batter ciglio (“postura troppo remissiva”, “camicia aperta, quindi sciatta”, “tono di voce basso, arrendevole”, “non mi farebbe certo venir voglia di parlargli” e via andare, fino al progressivo annientamento). Non c’è nulla di eccessivo, né tanto meno di moralistico: tutto è minuziosamente calibrato sulla gelida realtà. Una realtà fatta di giudizi sommari, di valutazioni di superficie e di consuetudini eternamente scandite da protocolli rigidamente immutabili. Come la squallida festicciola per le dimissioni della collega, che se ne va in pensione dopo dodici anni di onorata carriera alla cassa del supermercato e altri venti al banco dei salumi… (da apnea!).
……….
Esco dalla sala per ultimo, preceduto da non più di una ventina di persone. Per la prima volta nella mia vita, la maschera – che intuisco essere anche l’anziano proprietario del cinema – mi chiede se il film mi sia piaciuto. Non ho voglia di parlare, non in quel momento. Non mi va di raccontargli le scelte che ho fatto e del perché io mi trovi lì. Gli rispondo senza enfasi che al giorno d’oggi un posto fisso di lavoro, qualunque esso sia, bisogna sempre tenerselo ben stretto. A qualsiasi costo.
Mentre lo sento sospirare dietro di me, mi riempio d’aria i polmoni e, sorridendo, me ne vado.