di Luca Boneschi *
Protagonista del caso è la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, così che il proverbio potrebbe essere parafrasato: Fatta la legge, trovate le Sezioni Unite.
Quello che voglio qui brevemente affrontare è il tema delle pensioni di vecchiaia, dando conto di una interpretazione piuttosto “strana” dalla Cassazione in merito alle “riforme Fornero” (riforme che, detto per inciso, impallidiscono rispetto a quelle adottate dal governo attualmente in carica con il Jobs act ed altri provvedimenti finalizzati ad indebolire pesantemente le tutele dei lavoratori e l’accesso alla giustizia).
Venendo al nostro tema, il decreto legge “Salva Italia” n. 201/2011 all’art. 24, comma 4 dà la possibilità, a chi ha maturato il diritto per la pensione di vecchiaia ma vuole incrementarne l’importo, di lavorare fino a 70 anni. La norma, osteggiata dai sindacati, consentiva in realtà il raggiungimento di più obiettivi: mantenere al lavoro persone esperte per aiutare l’inserimento di nuove leve; consentire di andare in pensione più tardi con un assegno più alto; alleggerire il bilancio dello Stato per qualche anno consentendo di incentivare l’occupazione e lasciando il compito di pagare la retribuzione (e non la pensione) alle imprese. Tito Boeri, allora non ancora presidente dell’Inps, ricordando le censure dell’Ufficio Internazionale del Lavoro al governo italiano così dichiarava: “Coloro che ritardano l’andata in pensione in realtà aumentano la probabilità di un giovane di trovare lavoro, perché contribuiscono a ridurre il prelievo fiscale e contributivo sul lavoro che serve in gran parte a pagare la pensione a chi ha potuto ritirarsi dalla vita attiva prima di loro (…)”.
Nonostante la chiarezza della norma, tuttavia, quando qualche lavoratore ha provato a continuare a lavorare oltre l’età pensionabile in base al decreto “Salva Italia”, molte aziende hanno detto no e hanno licenziato i malcapitati per raggiunti limiti di età. Alcuni di questi lavoratori hanno fatto causa, con esiti diversi a seconda dei Tribunali: in alcuni casi i giudici hanno affermato che il lavoratore aveva diritto di lavorare fino a 70 anni, in altri casi hanno negato il diritto. La Corte di Cassazione, su ricorso di una grande azienda, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite (che vengono investite, tra l’altro, nel caso in cui si debba trattare una questione di massima di particolare importanza), ritenendo che la domanda venga a incidere “sull’assetto degli equilibri del sistema pensionistico di una determinata categoria”.
A ben vedere, però, gli “equilibri” in realtà sono: chi deve pagare il lavoratore? L’impresa presso la quale continua a lavorare o il sistema pensionistico corrispondendo la pensione e sgravando l’impresa?
Indovinate come le Sezioni Unite hanno deciso il modesto eppur rilevante caso del diritto a lavorare fino a 70 anni? Declassando il “diritto” a “possibilità”: se c’è l’accordo tra lavoratore e impresa, si può continuare fino a 70 anni. Grazie della concessione: si poteva anche prima della riforma!
Dunque, nel caso vi sia una legge che attribuisce al lavoratore un “diritto”, vediamo di chiarire al più presto che è solo una facoltà e che richiede l’accordo del datore di lavoro, specie se il diritto (che a questo punto non è tale) comporta per le imprese un onere economico e contributivo, per il lavoratore un vantaggio e per lo Stato un risparmio (non paga subito la pensione) e un guadagno (incassa i contributi). Fatta la legge…
Il tutto con piena soddisfazione di Confindustria, il cui presidente Giorgio Squinzi, da appassionato ciclista, con una volata lunga di indubbia potenza si porta a casa anche questo successo dopo gli sgravi contributivi per le nuove assunzioni, i funerali dell’art. 18 con le tutele crescenti, il demansionamento ultrafacile, la possibilità di diminuire la retribuzione del lavoratore, l’accordo interconfederale del 2014 e tutte gli altri ottimi risultati che ora mi sfuggono di mente. Con la prospettiva molto concreta – stando ai rumors sempre più insistenti – di potersi liberare dei lavoratori anziani (che costano di più) scaricandoli sul sistema pensionistico qualche anno prima della maturazione della pensione anche senza ricorrere alla cassa integrazione. E c’è, tra le imprese, chi critica Squinzi: sono insaziabili!
Quindi tutto grasso che cola per le imprese, e poco importa se i pensionati avranno una pensione molto ridotta. La cosa buffa è che i sindacati sembrano contenti, come per l’arzigogolato sistema del part-time di cui si parla nella prospettata legge di stabilità: sempre – s’intende – che il datore di lavoro sia d’accordo, l’impresa risparmierà la metà dello stipendio, il lavoratore guadagnerà qualcosina di più (rispetto al 50% che gli spetta) grazie al versamento a lui di una parte dei contributi, lo Stato verserà i contributi mancanti e per farlo si indebiterà. Possiamo parlare di miopia dei sindacati e della sinistra, sempre che una sinistra esista ancora?
* Mi sono sempre occupato di diritto del lavoro, specialmente per i giornalisti e il loro sindacato. Ho fatto anche molto diritto penale, campo che però ho da tempo abbandonato. Ho diretto per 10 anni la Scuola di alta formazione in diritto del lavoro dell’Agi Avvocati Giuslavoristi Italiani perché mi piace insegnare ai giovani e provare a trasmettere esperienza, veder crescere generazioni preparate e agguerrite, magari appassionate, con buona preparazione teorica e non solo fatta sul campo. Sono sposato e ho una figlia, vivo e lavoro a Milano.