Passato l’anniversario della morte – 40 anni il 2 novembre – è cominciato il tentativo di ridimensionare Pier Paolo Pasolini, di riportarlo a quella dimensione in cui tanti hanno cercato di incastrarlo, da vivo e da morto: era un omosessuale, gli piacevano i ragazzini e il pericolo, è morto come un omosessuale a cui piacciono i ragazzini e il pericolo. “Basta con le ipocrisie, Pasolini era un pedofilo”, titola oggi Libero, con un articolo di Gianluca Veneziani. Le vicende sono note, già in Friuli lo scrittore aveva avuto rapporti con ragazzi, anche minorenni, è per questo che fu espulso dal Pci di Pordenone nel 1949.
Giuliano Ferrara, con un certo abuso della proprietà transitiva, ha sostenuto sul Foglio che non si può ricordare Pasolini senza riabilitare Silvio Berlusconi. Uno frequentava ragazzi di vita, l’altro prostitute minorenni (già che c’è Ferrara riabilita anche i preti pedofili). Troppo facile smontare questa polemica: Pasolini non era presidente del Consiglio, nel caso di Berlusconi il tema non è mai stato (solo) quello che faceva in camera da letto, ma le conseguenze nella sua attività istituzionale, i ricatti, le pressioni per evitare gli scandali, il Parlamento costretto a votare sui rapporti di parentela del dittatore egiziano Mubarak.
Dire che Pasolini è morto come è vissuto, che a forza di guardare l’abisso ci si finisce dentro, è semplicemente falso. Perché in quarant’anni di indagini, a cominciare dalla sentenza del primo processo del 1976, l’unica cosa che sappiamo con certezza è che la versione “ufficiale” dell’omicidio è falsa. La storia di Pasolini che si aggira come un satiro nella piazza davanti alla stazione Termini in cerca di ragazzini, ne trova uno e prova a sottometterlo con violenza, finendo vittima della sua autodifesa, è una balla completa.
Non sto qui a ricordare tutte le evidenze, ma nessuna persona in buona fede può credere ancora a Giuseppe “Pino la Rana” Pelosi come unico protagonista e assassino.
La morte di Pasolini resta un “segreto italiano”, come lo chiama Carlo Lucarelli. Non mistero, perché i misteri sono quelli della fede. Qui una lunga lista di persone sa cosa è successo e ha lavorato per evitare che tutti noi potessimo collegare i mille punti che legano la vita di Pasolini alla sua morte. Il libro sull’Eni, Petrolio, gli editoriali del Corriere della Sera che dimostravano come avesse intuito l’essenza della strategia della tensione, la mafia ecc. I misteri sono inconoscibili, i segreti vengono custoditi con cura.
Pietrangelo Buttafuoco, sempre sul Foglio, ha scritto che il “POTERE” ha ucciso Pasolini trasformandolo in una “immaginetta”. A leggere le polemiche di questi giorni non sembra. Pasolini resta un intellettuale che nessuno sa bene come ricordare: ci sono stati poeti più grandi, romanzieri più duraturi, registi più universali. Di PPP resta soprattutto la sua figura pubblica, di intellettuale, espressa negli editoriali, nelle interviste. In fondo ricordiamo Pasolini perché era divisivo, problematico, perché tuttora è difficile conciliare la sua carica reazionaria, la sua nostalgia contadina, con le sue intuizioni sulla modernità, la fede comunista con il rispetto per quella religiosa, la predicazione di una sessualità libera, serena, e la continua ricerca della sua dimensione più esecrata, indicibile. L’essere contro tutto il sistema e trovarsi a diventare, da vivo come da morto, uno dei suoi pilastri. Ma a leggere anche le più encomiastiche delle celebrazioni non mi sembra che sia diventato un’immaginetta, non c’è un modo neutro e innocuo per raccontarlo. Risulta impossibile appiattire Pasolini su una delle sue dimensioni.
L’obiezione di Salvatore Merlo, ancora sul Foglio, non è sul personaggio ma sui temi della sua produzione: Pasolini non è universale, non ha trasceso la sua opera, la sua arte resta “rinchiusa in quell’epoca e nelle ossessioni d’una generazione”. E quindi “quella di Pasolini è una condanna anagrafica che però i sessantenni non dovrebbero comminare anche a noi”, cioè noi trentenni. C’è un fondo di verità. Anche le polemiche pasoliniane e corsare sembrano sempre più lontane, hanno bisogno delle note a fondo pagina, al cinquantesimo anniversario i trentenni del 2025 troveranno oscura anche la sua polemica sulla televisione, visto non ne avranno mai accesa una per vedere video. Lui stesso se ne dimostrò consapevole, in una famosa intervista a Enzo Biagi, quando notava che perfino le metafore del vangelo – eredità di un mondo contadino distrutto dall’industrializzazione – erano diventate difficili da decodificare, figurarsi le sue analisi sulla rapida trasformazione dell’Italia nel boom.
Qualcuno però ha notato che i trent’anni dalla morte di Italo Calvino sono passati nella generale indifferenza, nonostante i romanzi di Calvino abbiano resistito molto di più al passare del tempo rispetto a Ragazzi di vita o Una vita violenta. Non stiamo parlando del ricordo di uno scrittore, di un poeta, anche se così Alberto Moravia chiese che fosse ricordato il giorno del funerale. Pasolini è Pasolini, nessuna classificazione gli si può applicare senza trascurarne qualche specificità. E’ vero, è legato al suo tempo, ma nella sua vita e ancor di più nella sua morte ha condensato le contraddizioni di questo Paese, le sue ipocrisie, ha dimostrato la dimensione intrinsecamente violenta del potere e la disponibilità alla sottomissione come parte del carattere nazionale.
Il tentativo di seppellire definitivamente Pasolini con le armi del finto “politicamente scorretto”, declinazione ultima e ingenua del conformismo, non sta funzionando.
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