Non solo Volkswagen. Berlino ha dovuto limare le previsioni di crescita perché il rallentamento di Russia e Cina riduce la domanda per i suoi prodotti. Intanto la produttività non cresce, il sistema creditizio è in affanno e la disoccupazione è bassa solo grazie ai mini-jobs da 450 euro al mese. Il Paese deve poi far fronte ai costi per l'assistenza ai rifugiati
La truffa di Volkswagen sulle emissioni, che ora si è allargata anche alle auto a benzina, può avere “ricadute negative” anche in altri settori dell’economia tedesca attraverso le catene produttive e il calo della fiducia, che potrebbero comportare una riduzione degli investimenti. A evidenziare il rischio è la Commissione Ue, nelle sue previsioni economiche d’autunno. Che da un lato evidenziano come la Germania continui a registrare una crescita “costante e continua” (+1,7% quest’anno, +1,9% nel 2016), dall’altro riconoscono che è ancora impossibile misurare l’impatto potenziale dello scandalo sulla locomotiva d’Europa.
Negli ultimi anni i successi sui campi da calcio, sia a livello di club che di nazionale, ne avevano fatto lo spot perfetto di un modello sociale di successo, solido e sostenibile. Capace di guidare la Ue dall’alto delle dimensioni di un’economia che è la quarta al mondo e di un sistema di valori fondato sul rigore e la responsabilità. Ma il sistema Germania, oggi, avverte più di uno scricchiolio. Secondo la società di consulenza Brand Finance lo scandalo delle emissioni, che ha portato il marchio Volkswagen a perdere un terzo del suo valore, ha avuto pesanti ripercussioni anche sul brand “Deutschland”, che si è visto scippare la testa della classifica da Singapore, perdendo secondo le stime 191 miliardi di dollari di valore virtuale e scendendo a 4.200 miliardi di euro. Una valutazione basata su previsioni di crescita del pil e performance del Paese in diverse aree. E gli effetti si faranno sentire anche in campo sportivo, dal momento che la casa automobilistica oggi investe, a vario titolo, in 17 dei 36 top team tedeschi.
Anche lasciando da parte la tempesta che si è abbattuta sulla Volkswagen, il cielo sopra Berlino era nuvoloso già da un po’. L’indice Zew, che misura mensilmente la fiducia delle imprese, ha fatto registrare a metà ottobre il settimo ribasso consecutivo, crollando a 1,9 punti dai 12,1 di settembre, un calo doppio rispetto a quello atteso da Bloomberg. L’industria automobilistica occupa un tedesco su sei e vale il 18% delle esportazioni. A fronte di un prodotto che diventa meno appetibile, i problemi tedeschi si riflettono nelle difficoltà che attraversano alcuni dei principali partner commerciali della Germania, in primis Russia e Cina. E che hanno contribuito a strappare negli ultimi giorni ad Angela Merkel più di una dichiarazione a favore del discusso trattato transatlantico Ttip. Ad agosto le esportazioni tedesche sono calate del 5,2% rispetto al mese di luglio, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, che ha registrato anche un netto ribasso delle importazioni, diminuite del 3,1 per cento. Dati che sono arrivati due giorni dopo l’annuncio da parte del ministro dell’Economia di un calo degli ordini industriali, ad agosto, dell’1,8% rispetto al mese precedente, quando erano già diminuite del 2,2 per cento.
Un ribasso derivante non solo da una domanda indebolita al di fuori dell’Eurozona ma anche da un mercato interno caratterizzato da bassi salari e crescente disuguaglianza sociale. La disoccupazione, oggi al 6,2%, è ai minimi degli ultimi venti anni. Ma i mini-jobs, che hanno contribuito a questo tasso da piena occupazione, nascondono la realtà di quasi un milione di pensionati che tornano al lavoro per sfuggire alla povertà: sono raddoppiati negli ultimi dieci anni. In totale sono circa 7,5 milioni i lavoratori con questa tipologia di contratto, che prevede una retribuzione massima di 450 euro. L’ultima riforma del lavoro ha introdotto un salario minimo di 8,5 euro all’ora per molte fasce svantaggiate, ma in alcuni casi è stato un boomerang perché le aziende hanno preferito fare a meno dei mini-job diventati troppo onerosi rispetto al lavoro richiesto.
La necessità delle imprese tedesche di lavoratori non specializzati ha accompagnato la strategia di accoglimento di un milione di rifugiati, una mossa che sta creando notevoli grattacapi al governo. Se questo, infatti, aumenterà le spese per il welfare, non andrà probabilmente a incidere sulla produttività, che a oggi è ancora fiacca e che conduce a un’ottimistica previsione di crescita per l’anno in corso dell’1,7%, non certo livelli da locomotiva d’Europa. Anche perché restano limitati gli investimenti, sui quali incidono gli affanni del sistema creditizio. Deutsche Bank, che ha chiuso il terzo trimestre con una perdita di 6,2 miliardi di euro, quest’anno potrebbe per la prima volta nella sua storia non distribuire dividendi e ha già avviato una riorganizzazione che prevede la separazione della investment bank in due dipartimenti distinti, di cui uno raggrupperà le attività di vendita e di trading di titoli sui mercati mondiali. Mentre pochi giorni fa Hsh Nordbank, ultima della banche di proprietà dei Länder – a eccezione della poi fallita WestLb – a non essere transitata per una ristrutturazione, ha trovato un accordo con la Commissione europea per il suo salvataggio, che vedrà il trasferimento di 6,2 miliardi di euro di titoli inesigibili in una bad bank e la tutela di 2.500 posti di lavoro.