Tutti conoscono l’Istituto Luce come la macchina propagandistica del regime fascista e, in buona parte, così è stato. L’istituzione è sopravvissuta alla guerra e ha proseguito la sua attività di documentazione sulla realtà italiana fino agli anni Novanta distinguendosi, in questa seconda fase, per la produzione di documentari e film, assegnati ai migliori cineasti italiani. Attualmente l’archivio dell’Istituto Luce è consultabile anche dalla rete e sono visibili, in bassa definizione, circa 18.000 filmati tra cinegiornali e documentari, unitamente ad altri repertori. Siamo di fronte a un immenso patrimonio d’immagini fotografiche e in movimento su 70 anni di vita italiana.
Dopo una serie di passaggi burocratici, l’Istituto Luce nasce con il Decreto regio del 5 novembre 1925, ma già l’anno prima esisteva il Sindacato Istruzione cinematografica, sorto con l’intento (poi assunto dal Luce) di sviluppare il cinema nel campo dell’istruzione.
L’acronimo di Luce, inventato da Mussolini, sta per L’Unione Cinematografica Educativa. L’intento pedagogico è associato alla propaganda a favore del regime benché nei primi anni, almeno fino al 1931, il tratto di propaganda fascista non appaia agli osservatori esteri onnicomprensivo e martellante, dal momento che il primo presidente del Luce, Luciano De Feo, è chiamato alla segreteria generale dell’Istituto Internazionale per la Cinematografia Educativa (Iice), organo della Società delle Nazioni, antesignano dell’odierna Onu. Infatti, il Luce si presenta nel mondo come la prima istituzione pubblica dedicata all’informazione e al cinema educativo. Il Luce si dota di una sezione scientifica che – sotto la guida di Roberto Omegna – realizzerà documentari sui fiori, sugli animali, sui viaggi sperimentando anche le tecniche di ripresa al rallentatore. Il solo Omegna produrrà oltre 100 filmati, di diversa lunghezza, girati fino al 1942.
Il patrimonio documentale del Luce presenta pellicole girate nei più sparsi angoli della campagna italiana (Cinemateca agricola), volti a valorizzare sagre e tradizioni locali, a illustrare tecniche agronomiche sulle coltivazioni. La sezione agricola ricevette cospicui finanziamenti, tanto da permetterle di realizzare 870 filmati nel 1926 e circa 3.000 nel 1929. Attorno all’agricoltura si spinge anche il forte intento propagandistico del regime, con la cosiddetta ideologia ruralista, che rappresenta la campagna in un contesto bucolico espunto da fatiche, miseria e lotte, un mondo armonioso, una prefigurazione dell’ordine in opposizione alle città che, nonostante la propaganda avversa, cominciarono ad allargarsi negli anni Trenta con l’emigrazione dalla campagna.
Non sono mancati anche filmati igienico sanitari legati alle campagne demografiche (la donna è rappresentata quasi unicamente come “produttrice” di figli per lo Stato fascista) e filmati di istruzione religiosa, altro collante al quale il regime ricorre per stabilizzare il suo consenso.
I documenti del Luce che appartengono alla nostra memoria collettiva sono senz’altro i cinegiornali che iniziano nel giugno del 1927 e propongono una decina di minuti di girato su vari argomenti. Fino al 1931, i filmati sono muti per un totale di circa 900 ai quali si aggiungeranno oltre 2.000 cinegiornali realizzati fino al 1943, una media di 4 a settimana. E’ l’esito di un lavoro penetrante e ad ampia diffusione considerando che, per legge, la proiezione dei filmati Luce era obbligatoria nelle sale cinematografiche prima e dopo ciascun film. Inoltre, esistevano anche i cinemobili (camioncini con attrezzatura per la proiezione) che portavano le immagini anche negli angoli più sperduti del Paese.
La diseducazione alle immagini e ai suoi strumenti manipolatori, rese questo nuovo medium di una potenza straripante ai fini della costruzione del consenso. Le immagini davano l’impressione di una realtà oggettiva, non smentibile. Le scarse comunicazioni e la stanzialità di gran parte degli italiani del tempo, difficilmente consentivano di verificare con i propri occhi ciò che i cinegiornali raccontavano.
A partire dagli anni Trenta si sviluppa la costruzione del mito di Mussolini come duce dell’Italia, con un’esibizione corporea delle sue diverse attività (mietitore, spadaccino, tennista, nuotatore, saldatore, cavallerizzo, motociclista ecc) che non ha eguali nelle altre dittature, dove le figure di Stalin o di Hitler, ad esempio, sono riprese, pur fra imponenti manifestazioni di massa, nella staticità tribunizia o in cerimonie ufficiali.
Repertori che si presentano, allo stesso tempo, come documento e come contraffazione che rivelano anche, nella tragicità delle dittature, le iperboli ridicole, più chiare alla storia che non ai contemporanei.