Mentre continuano le schermaglie politico-diplomatiche nel Mar Cinese Meridionale, la Cina guarda a Ovest, lungo la Via della Seta. Il vice presidente Li Yuanchao è andato nei giorni scorsi in visita ufficiale in Afghanistan, dove ha promesso la costruzione di infrastrutture e un contributo alla sicurezza, firmando diversi accordi commerciali a Kabul. Recava con sé un messaggio scritto di Xi Jinping in cui il presidente cinese parla di “pace, stabilità, sviluppo”. Durante le varie cerimonie ufficiali, Li ha dichiarato che “la Cina è pronta a collaborare in progetti bilaterali nel commercio, negli investimenti e nelle infrastrutture, e ad aumentare la cooperazione nella lotta al terrorismo e al commercio di droga”. È un’ottima e veritiera sintesi dell’impegno cinese in Afghanistan.
L’investimento che la Cina ha promesso al presidente afgano Ashraf Ghani è di 500 milioni di yuan (79 milioni di dollari Usa), che daranno il via alla costruzione di infrastrutture e di 10mila appartamenti residenziali a Kabul, il cui costo complessivo è stimato in due miliardi di yuan (315 milioni di dollari); il che lascia intendere che siamo solo alla prima tranche di investimenti cinesi. Pechino fornirà anche “speciali dispositivi di sicurezza” – parole di Ghani – per la scansione dei veicoli che entrano nella capitale.
Mentre Li e Ghani presenziavano a varie cerimonie ufficiali, atterravano all’aeroporto di Kabul aiuti umanitari cinesi per 10 milioni di yuan (1,6 milioni di dollari), a cui si aggiunge un milione di dollari in contanti. Sono destinati alle popolazioni afflitte dal terremoto di 7,5 gradi che il 26 ottobre ha colpito dieci province afgane, provocando almeno 115 vittime. 20mila coperte, trecento tende, sessanta generatori di corrente: a occhio, potrebbe essere la produzione settimanale – forse giornaliera – di qualsiasi fabbrichetta del Guangdong. Ma al di là del passo di Vachir assumono un enorme valore d’uso e anche di scambio.
Strade, case, merci da economia industriale di vecchio stampo: la Cina esporta il proprio eccesso produttivo. E anche gli “speciali dispositivi di sicurezza” rientrano nel quadro d’insieme. Qui è probabilmente la tecnologia d’avanguardia, più che gli scarti da magazzino, a essere collaudata in terra afgana.
Così, Pechino fa politica mentre apre nuovi mercati alle proprie aziende che soffrono la contrazione della domanda internazionale. Non è infatti ancora specificato a quali imprese di costruzioni andranno gli appalti afgani, ma si potrebbe puntare una discreta somma sul fatto che saranno cinesi. Del resto, chi costruisce oggi infrastrutture prêt-à-porter meglio del Dragone?
Domanda (afgana) e offerta (cinese) si incontrano alla perfezione, il cerchio si chiude. La stessa strategia che sarà probabilmente applicata lungo tutta l’Asia Centrale con il progetto “One Belt One Road” (la neonata Via della Seta), nel laboratorio Afghanistan appare più limpida proprio per la nitidezza dei bisogni, delle urgenze.
Sul piano geopolitico, la Cina non vuole colmare il vuoto lasciato l’anno scorso dal ritiro di gran parte delle truppe straniere che avevano invaso e occupato l’Afghanistan. Pechino ha invece promesso di svolgere un “enorme” ruolo commerciale per contribuire alla ricostruzione del Paese, dove i talebani danno segni di riscossa. È l’applicazione più temeraria, nonché la prova del nove, per la filosofia diplomatica di Pechino: solo il progresso economico, non la guerra o l’imposizione di modelli politici alieni, può risolvere i conflitti. Win-win, altro che esportazione della democrazia, regime change o boots on the ground all’americana. Qui, on the ground si piantano le fondamenta (cemento e acciaio made in China, naturalmente).
Nell’esportazione del modello, la Cina compenetra in Afghanistan esigenze commerciali e di sicurezza. Da sempre, Pechino teme che il Paese sia il grande retroterra, con il Pakistan, dei separatisti uiguri dello Xinjiang e per questo motivo la diplomazia cinese è stata tra le più attive nel favorire il processo di riconciliazione nazionale tra il governo di Kabul e i talebani. La morte del Mullah Omar – che secondo alcuni analisti ha sempre avuto un canale diretto con Pechino – ha però complicato la situazione, perché la costellazione dei talebani è esplosa, è diventata anarchica, i colloqui di pace rischiano di fallire e il mese scorso una fazione di combattenti ha conquistato per alcune ore la città di Kunduz. È il caos, ciò che Pechino teme di più.
Durante la visita del vice presidente Li Yuanchao, è stato quindi nominato “inviato speciale” per l’Afghanistan l’ex ambasciatore a Kabul, Deng Xijun, con il compito di rendere più attivo il ruolo cinese nelle trattative di riconciliazione. Il principio guida resta però quello della “non intromissione” negli affari altrui. Nella conferenza stampa che ha annunciato la nomina di Deng, la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, ha dichiarato che “la Cina sostiene un processo di riconciliazione a guida e controllo afgani” e che Pechino è pronta a collaborare solo “secondo volontà e richiesta di parte afgana”.
di Gabriele Battaglia