di Massimo Bordignon e Gilberto Turati (Fonte: lavoce.info)
Il finanziamento dei debiti pregressi
“Il Piemonte in deficit per 5,8 miliardi”, “C’è buco nei conti delle Regioni per 20 miliardi”, “Serve il ‘decreto salva Regioni’ per accettare i tagli alla sanità”: i titoli dei giornali di questi giorni danno i brividi. Ma come fanno le Regioni ad aver accumulato 20 miliardi di deficit e il solo Piemonte 5,8? E come fa il governo a salvarle senza tirar fuori un euro? E che c’entra con la sanità?
È una storia tipicamente italiana. Comincia così. Con il decreto legge 35/2013 lo Stato stanzia risorse, circa 40 miliardi per gli anni 2013 e 2014, per consentire alle amministrazioni pubbliche di accelerare i pagamenti dei debiti pregressi verso i fornitori. Rappresentano una magagna strutturale del sistema italiano, valutato ai tempi (dalla Banca d’Italia) in circa 90 miliardi di euro. Le amministrazioni pubbliche pagano in ritardo; i fornitori se l’aspettano e rincarano i prezzi, con un danno generalizzato per il contribuente, che finisce con il pagare di più di quanto dovrebbe per i beni e i servizi. Metà circa di questi debiti pregressi riguardano le aziende sanitarie. C’è la necessità di cambiar pagina, anche perché i tagli del governo Monti e i vincoli più stringenti imposti con i patti di stabilità rischiano di rendere la situazione esplosiva, con ulteriori accumuli di debiti nei confronti del settore privato. Di più, il governo Monti ha recepito la direttiva europea che impone, a partire dal gennaio 2013, pagamenti entro 30 giorni (60 nel caso della sanità), quando la media è di 130 giorni, in base alle stime disponibili più recenti.
Di fatto, si tratta dell’unica politica fiscale “espansiva” che l’Ue consente all’Italia in una situazione di crisi economica profonda. L’argomento è che si tratta di spesa del passato, non di spesa futura, e quindi sono risorse che non violano i vincoli europei. Tecnicamente, eccetto per la parte minoritaria che riguarda le spese di investimento (che per una bizzarria italiana viene valutata sulla cassa e non sulla competenza), sono soldi “sotto la linea”: aumentano il debito ma non l’indebitamento netto, in quanto si tratta di spese già computate nei conti delle amministrazioni pubbliche del passato.
Poiché metà dei debiti commerciali riguardano le aziende sanitarie e, dunque, le Regioni che sono responsabili della spesa sanitaria, metà di questi soldi, appunto circa 20 miliardi, vanno alle Regioni (13 per i debiti sanitari, 7 per debiti diversi). Ora la situazione tra le Regioni è diversissima: in termini di tempi di pagamento si va dalla Lombardia, che paga in 83 giorni, alla Calabria, che paga in 552 giorni (dati Assobiomedica). Dunque, i soldi vengono richiesti (e assegnati) in modo molto diverso dalle regioni: zero la Lombardia, più di 7,5 miliardi al Lazio e 4,5 al Piemonte (come risulta dal sito del ministero dell’Economia).
Si noti che i soldi non vengono dati a casaccio: il Tesoro controlla le fatture dei creditori e le somme vengono trasferite alle Regioni dopo le opportune verifiche.
Il problema diventa a questo punto come contabilizzare nei bilanci regionali le extra risorse che provengono dal bilancio dello Stato. La Regione Piemonte sceglie – a quanto pare come molte altre – di metterli nel Titolo V delle Entrate, quello relativo alle entrate da “mutui, prestiti e altre operazioni creditizie”. La ragione è che i soldi attribuiti alla regioni da parte dello Stato non sono, almeno formalmente, un regalo, ma un prestito da restituire in 30 anni al tasso di interesse dei Btp trentennali e 30 anni è un lasso di tempo paragonabile a quello dei mutui di lungo periodo. Sempre a quanto pare, prima di farlo, la regione Piemonte chiede un parere a un alto rappresentante della Corte dei conti piemontese, che approva la decisione. Dunque, i soldi vengono messi nel Titolo V, la Regione presenta e chiude i bilanci.
La Corte dei conti e la Corte costituzionale
Senonché, la Corte dei conti piemontese, nel suo giudizio di parificazione del bilancio regionale del 2013, a differenza di quello che fanno le altre Corti regionali, non è d’accordo su questa scelta (e dunque nemmeno con il proprio alto rappresentante). La Corte obietta che porre le nuove risorse tra le entrate al Titolo V senza contemporaneamente neutralizzarle con una posta di analogo importo al Titolo III delle Spese, quello intestato alla restituzione dei prestiti, significa consentire alla Regione di finanziare in debito anche spese correnti. Ma questo è proibito dalla Costituzione, che al comma 6 dell’articolo 119 specifica chiaramente che solo le spese di investimento possono essere finanziate a debito. Al contrario, i soldi avrebbero dovuti essere conteggiati come una anticipazione di cassa, dunque inseriti nel Titolo VI delle Entrate e contemporaneamente vincolati sul lato delle spese.
Siccome si tratta di un tema che riguarda l’interpretazione di un articolo della Costituzione, il conflitto Regione Piemonte – Corte dei conti finisce di fronte alla Corte costituzionale. Questa, con sentenza n. 181/2015 dà ragione alla Corte dei conti piemontese. Dunque, il bilancio della regione Piemonte viene “rettificato” eliminando dalle entrate i soldi arrivati dallo Stato; a questo punto il bilancio presenta un disavanzo di 2,5 miliardi per il 2013 che accumulandosi arriva quasi a 6 con il giudizio di parifica del bilancio 2014. Non solo: come ha osservato la Corte dei conti del Piemonte, la legislazione vigente (articolo 9 comma 5 del Dl n. 78/2015, convertito in legge n. 125/2015) richiederebbe la copertura in sette anni del disavanzo 2014 (non più la restituzione in 30 anni dell’anticipazione), che vuol dire fallimento certo, perché la Regione Piemonte non può certo restituire più di 800 milioni all’anno per sette anni, avendo un bilancio complessivo di 12 miliardi. E non si tratta solo del Piemonte; poiché pare che anche altre regioni abbiano fatto lo stesso sul piano contabile e benché le varie Corti regionali non abbiano al tempo sollevato eccezioni, il problema dovrebbe essere comune, creando un buco di appunto 20 miliardi.
Il decreto
Per metterci una pezza, le Regioni chiedono con urgenza un “decreto” al governo; in pratica una riscrittura della legge originaria che giustifichi ex post il comportamento delle Regioni, consentendo loro di conteggiare i soldi nel bilancio nel modo già visto. Il decreto viene promesso, poi posticipato, poi inserito nella legge di Stabilità. Ma così non va bene, perché la legge di Stabilità entra in vigore nel 2016 e le Regioni devono chiudere i bilanci del 2015 e senza il decreto molte potrebbero finire in bancarotta, certamente accadrebbe al Piemonte. Tant’è che è di oggi la notizia dell’approvazione del decreto salva Regioni, che consente ai governatori di restituire in 30 anni i soldi girati dallo Stato per pagare i fornitori. Di qui l’anticipo, nelle more del conflitto Stato-regioni sul finanziamento per la sanità per il 2016, con la stampa che malignamente suggerisce che il decreto sia stato rallentato dal governo proprio per utilizzarlo come elemento di scambio ulteriore nei rapporti con le Regioni, per convincerle ad accettare senza eccessive proteste il nuovo e ridotto finanziamento della sanità per il 2016.
Due domande
Questa la storia. Nella migliore delle ipotesi, un pasticcio contabile, che la dice lunga sulla qualità della legislazione italiana e delle contraddizioni in seno ai proprio sistemi di controllo, che apparentemente giudicano in un modo in un caso e in un modo diverso nell’altro. Ma al cittadino normale, di tutto questo importa francamente ben poco. Le domande vere e importanti sono le seguenti.
1) Le Regioni hanno speso i soldi per finanziare i debiti pregressi, oppure li hanno utilizzati per finanziare altre spese, in particolare di parte corrente?
2) Tutto questo ha un impatto sui conti dello Stato, con l’esigenza di trovare coperture per altri 20 miliardi (cioè un’altra legge di Stabilità) per coprire il buco delle Regioni, oppure no?
Finora una risposta chiara a queste domande non c’è. Parrebbe che alla seconda domanda la risposta sia no: i soldi lo Stato li ha già conteggiati nel debito e gli eventuali addizionali disavanzi delle Regioni per qualche ragione non rimbalzerebbero sul consolidato della Pa. Risposta sì invece per la prima, cioè in effetti le Regioni hanno speso i soldi come dovevano (e il Tesoro avrebbe tutta la possibilità di controllare, avendo avuto accesso diretto alle fatture inevase inviate dalle Regioni).
Se è così, si tratta di una tempesta in un bicchier d’acqua, una roba che non fa certo onore al paese, ma insomma solo un pasticcio contabile, da risolvere appunto con un decreto. Se invece le risposte fossero diverse, come insistono alcuni giornali, allora sarebbero guai seri per il sistema delle regioni, di fatto, in buona parte in bancarotta, e per i conti pubblici nazionali. Sarebbe l’ora che i diretti interessati, governo e regioni, dicessero una parola chiara e definitiva su tutto questo.