Katya. Basta un nome, un’assonanza, il refolo gelido di una diapositiva del passato che scatta, e il rapporto di coppia durato quasi mezzo secolo tra Kate e Geoff si spezza. Bisogna andare a vedere 45 anni, notevole successo in Gran Bretagna, premiato all’ultimo festival di Berlino, in sala in Italia grazie a Teodora, per capire il senso profondo di quella frasetta banale e scontata dell’ “amore che non ha età”. I due splendidi settantenni, a dire il vero lui è più sugli ottanta, vivono una rilassata quotidianità da pensionati in una tranquilla località di pianura vicina alle Norfolk Broads, a nord est di Londra, dirimpetto ad Amsterdam.
La passeggiata della mattina in campo lungo con il pastore tedesco Max, le anatre e gli uccellini che cinguettano, il bicchiere d’acqua e il bollitore del tè sono per Kate la conferma giornaliera di come la sua vita abbia avuto affettivamente un senso a fianco del marito Geoff. Poco si sa in termini di dettagli del rapporto dei due. Molto però si viene a sapere subito di quel fantasma congelato nel tempo di nome Katya: la fanciulla con cui Geoff condivise un amore spensierato da ventenne tra i sentieri delle Alpi attorno agli anni sessanta. L’uomo è al tavolo della colazione, come inebetito e fissa lo sguardo sulla lettera appena arrivata. Il corpo di Katya è stato ritrovato perfettamente conservato in un crepaccio dopo che il ghiaccio secolare si è sciolto. Il turning point narrativo per il regista Andrew Haigh, autore dello script tratto dal racconto di David Constantine, è subito fruibile, sibilato come una freccia nel cuore idilliaco della relazione. Nulla sarà più come prima. Per Kate, che nulla sapeva di questa fiamma del marito antecedente al loro incontro, ma soprattutto nell’attesa dell’apice del racconto, rappresentato da quella festa tanto attesa per i 45 anni di matrimonio con amici e parenti pronti a celebrare l’amore intramontabile, ma che invece rischia di diventare un ulteriore amplificatore di dolore e delusione.
Lo sguardo di Haigh dentro l’abisso della fiducia che s’incrina, dell’amore che si dissolve, delle certezze che crollano, è volontariamente neutro (le riprese sono in 35mm) e fa leva su una prova d’attori maiuscola. Sul viso di Charlotte Ramplimg si disegnano lo stupore e la rabbia, lo smarrimento e il fastidio, fino al caos delle apparenze quando le tocca riformulare al telefono senza preavviso i brani musicali da richiedere al dj per la festa dei 45 anni: un elenco di parole e ricordi che all’improvviso non sembrano aver più senso, una sequela di titoli che paiono diventati una qualunque lista della spesa del pop (“Elton John comunque no, grazie”). Tom Courtenay, invece, sembra essere arrivato di corsa da Gioventù, amore e rabbia (The Loneliness of the Long Distance Runner): il fiatone del maratoneta stanco e anziano, l’afflato di giovinezza vivo e inconciliabile che si infrange su una realtà dei sentimenti che non può più ospitarlo, la sincera confessione di ogni bene voluto a quella donna lontana e dissepolta che disarma Kate e gli spettatori.
45 anni è cinema che scava e destabilizza, uno sguardo (pietrificato) alla Amour di Haneke e uno spaesamento da kammerspiel anni settanta per proporre un raffinato e muto dubbio su una vita di amore e affetto. E il finale sta lì a spiegare che l’osservazione e la non presa di posizione dell’autore è un gesto etico di voluta attenzione allo spettatore che deve scegliere come interpretare l’ultimo gesto di Kate.