Cucina

Cucinare i piatti delle corti italiane del Rinascimento? Dal “bianco mangiare” alla “minestra di pelle di capponi”, le ricette in un libro

Cinquecento anni fa cominciarono a diffondersi, ma solo in ambienti blasonati, la forchetta e i piatti a uso individuale. I banchetti, dicevamo. Il più famoso fu quello voluto dal Duca Alfonso I di Ferrara il 24 gennaio del 1529, comprensivo di ben 99 portate. Ma cosa mangiavano i nostri antenati rinascimentali, reparto nobiltà, alto clero e borghesia ricchissima? Pierluigi Ridolfi lo racconta in "Rinascimento a tavola: la cucina e il banchetto nelle corti italiane"

di Maurizio Di Fazio

“Nella concezione moderna dell’antica Roma, i nomi di Lucullo, Petronio, Trimalcione, Apicio sono associati a cibi raffinati, feste ricchissime, banchetti interminabili, piatti che destano stupore: è il trionfo della grande cucina. Tramontata la gloria di Roma, per mille anni sembra che la storia faccia a meno di tutto questo. Poi arriva il Rinascimento”. E rinasce l’arte della gastronomia. E se Leonardo, Michelangelo, Raffaello cambiarono per sempre la visione del mondo, Messisbugo, Rossetti, Scappi, Cervio e Lancerio realizzarono, in parallelo, un’altra rivoluzione epocale: quella legata al modo di stare a tavola, col cibo che cominciava a farsi feticcio e discorso massimo. Ce ne parla un libro edito da Donzelli, “Rinascimento a tavola: la cucina e il banchetto nelle corti italiane”, scritto da uno storico ingegnere e docente di Ferrara, Pierluigi Ridolfi.

Nel volume, ricco di documenti e apparati iconografici, il racconto degli sfarzosi banchetti organizzati per papi, duchi e imperatori si intreccia con la descrizione di ricette pletoriche ma sorprendenti: alcune sarebbero improponibili oggi, altre, perché no. Sullo sfondo l’Italia dei cinquemila castelli e di casate celebratissime: dalla corte estense di Ferrara (dove prestarono servizio Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, perché anche il cervello andava saziato) ai Gonzaga di Mantova; dagli Sforza a Milano (in cui operò Leonardo) ai de’ Medici a Firenze; e poi i papi, le tradizioni ebraiche, la Napoli prima francofona e poi battente bandiera spagnola.

Esattamente nel Cinquecento ha origine la cucina-spettacolo quasi come la intendiamo noi, con i “MasterChef” e la valanga di libri a carattere culinario. Tre erano le figure-chiave in cucina. La più importante era quella dello scalco. Solo lui possedeva le chiavi della regia della festa (scenografia, giochi, musiche), l’ideazione del banchetto, la gestione dei servizi di cucina e di tavola. Lo scalco-star fu Messisbugo, della corte estense. Suo il fondamentale “Bancheti, composizione di vivande et apparecchio generale” del 1549. Altri scalchi degni di gloria furono il Panonto e Giovan Battista Rossetti (autore di “Dello scalco”, 1584). Dopo lo scalco veniva, in un’ideale scala gerarchica, il cuoco. Come Bartolomeo Scappi, lo chef segreto di Papa Pio V, estensore di un'”Opera” (1570) da 900 pagine che ebbe infinite ristampe. E poi c’erano il trinciante (colui che tagliava le carni, e che carni) e il bottigliere, sommelier ante litteram.

Cinquecento anni fa cominciarono a diffondersi, ma solo in ambienti blasonati, la forchetta e i piatti a uso individuale. I banchetti, dicevamo. Il più famoso fu quello voluto dal Duca Alfonso I di Ferrara il 24 gennaio del 1529, comprensivo di ben 99 portate. “Col pretesto di festeggiare i novelli sposi Ercole D’Este e Renata di Francia, Alfonso volle mostrare alle potenze europee, a partire dalla Spagna, lo sfarzo di Ferrara” scrive Pierluigi Ridolfi. Ma cosa mangiavano i nostri antenati rinascimentali, reparto nobiltà, alto clero e borghesia ricchissima? Si faceva sempre un grandissimo uso di spezie, miele e aceto. L’agrodolce era la via maestra. Venivano serviti tutti i tipi di carne, soprattutto volatili e gallinacei: molto ricercati airone, gru e pavone. Pregiatissimo, tra i pesci, lo storione. Parecchio apprezzate anche le tartarughe e la cucina di frattaglie, di interiora di animali, non escluse parti come occhi (di vitello) e testicoli (di toro). Zucchero e cannella, a fine cottura, erano distribuiti un po’ dovunque. Un must di prelibatezza era il “bianco mangiare” (farina di mandorle, latte e polpa di carne bianca o pesce trattato al mortaio).
Il popolo invece si riempiva lo stomaco di pane. Di zuppe di vegetali. Solo una tantum la carne. E gli artisti mangiavano le stesse cose e allo stesso modo del popolo. A parte quelli di corte, s’intende. Ecco due ricette del tempo:

Minestra di Pelle di capponi:
“Per fare tre minestre piglierai due capponi grassi, li metterai a bollire e quando saranno cotti non interamente, li leverai dal brodo, scorticandoli, taglierai la pelle come taglioni e la metterai in un pignattino con un poco di brodo di cappone, con quattro once di pistacchi, stemperati con latte, passati per setaccio, e vi aggiungerei sei rossi d’uova, succo di limone, e il tutto butterai nel pignattino, dandogli fuoco lento e mescolandolo con un cucchiaio di legno, finché si restringa in brodetto, e sotto gli metterei fette di pane bruscato: questa minestra vuol essere servita con zucchero e cannella”.

Pasticcio d’occhi e orecchi e testicoli di capretto in cassa e sfogliati:
“Pigliasino gl’orecchi ben netti e si facciano trarre un bollo in acqua e sale, cavisino e si taglino in pezzuoli. Piglisi g’occhi e testicoli così crudi, ,mescolati con ventresca di porco tagliata a dadi,e con gli orecchi giungavasi uva spina, herbicine tagliate minute e come spetiera (pepe,. cannella, zafferano) e si metta ogni cosa nella cassetta del pasticcio, e facciasi cuore al forno, e come è presso a cotto, si ponghi dentro per il buco un saporetto, fatto di rossi d’uova battuti, agresto chiaro e zuccaro, e facciasi finire di cuocere, e cotto che sarà servasi caldo, ma volendo sfogliato, si faccia per lessare ogni cosa e si ponghi in la cassetta sfogliata con la medesima spetieria e ordine, facciasi cuocere. In questi due modi si possono accomodare le trippette, dopo che saranno ben nette e lessate, e anche le animelle e coratella”.

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