Quando ero piccolo, dai dieci ai sedici anni, anche per me lo stadio significava andare in curva sud. Le partite cominciavano tutte alle due e mezza e i cancelli, per quelle più importanti, potevano aprire anche alle dieci. Io, mio cugino Giancarlo, più grande di me di sette anni, e i suoi amici eravamo sempre lì almeno mezz’ora prima che aprissero per prendere i posti giusti, i nostri posti che poi sono più o meno quelli che oggi si chiamano distinti sud. Non c’erano tornelli da superare, ma solo abbonamenti da punzonare o biglietti da strappare, senza dover mostrare i documenti, soprattutto senza provare quella strana sensazione di sentirsi per certi versi schedati.
La partita era l’ultima cosa ad arrivare di una lunga mattinata fatta di partite a carte, di chiacchiere che per me che ero il più piccolo spesso significava esclusione o al massimo noiosi consigli su come rimorchiare le ragazzine, di panini con la frittata preparati a casa dalle mamme, di libri da leggere che significavano ancora di più esclusione e un po’ anche una tendenza col tempo vinta ad essere “un soggetto”, in fondo una lunga mattinata di festa ma anche un po’ di noia. Non c’erano separazioni di settori e di polizia tra i tifosi. Era più facile fare a botte, per chi era interessato all’argomento. Le panche su cui sedersi erano di legno e la partita la si vedeva ancora seduti, tutto lo stadio era scoperto, il che significava nelle giornate di pioggia ombrelli, impermeabili, buste di plastica ai piedi, l’umidità che ti entrava dentro anche dal legno delle panche, per ritornare a casa comunque sempre zuppi con le mamme pronte a farci la predica e minacciarci di mandarci a scuola il giorno dopo anche se ci fosse venuta la febbre.
Poi a sedici anni ho iniziato a fare l’arbitro e quindi per me è diventato difficile andare allo stadio con continuità e soprattutto ho iniziato a frequentare gratis la tribuna Monte Mario nel settore appunto allora riservato agli arbitri. Oggi, che da più di vent’anni non faccio più l’arbitro, l’unico lusso della vita che mi concedo è continuare a vedere a spese mie la partita dalla tribuna, ormai per abitudine e perché all’Olimpico è l’unico settore in cui vedi qualcosa. L’arbitraggio mi ha quindi tolto la possibilità di vivere le trasformazioni nel tempo del significato delle curve senza riuscirmi a farmene apprezzare, al di là di alcune aberrazioni, i lati positivi, primo tra tutti il valore dell’appartenenza. In tribuna non riuscirai mai a viverlo e capirlo se non lo hai provato in altri ambiti questo valore. E un po’ mi manca.
A questo punto vi sento, a voi. Ancora parliamo di calcio? Il calcio è morto: le scommesse, le partite truccate, gli scandali, il potere dei soldi e i giocatori che guadagnano troppo, la violenza, la credibilità. Il problema però è il vostro, non è il mio, che non sapete cogliere la bellezza del gol di Florenzi contro il Barcellona, del gol di Klose o di Yanga-Mbiwa all’ultimo minuto nel derby, dei movimenti perfetti del Pipita, di una punizione di Pirlo, delle maglie granata del Toro (che rimangono le più belle e le più significative d’Italia), del Catanzaro che batte la Juventus, dell’odore dell’erba, dell’abbraccio con uno che non conosci, delle tante stracittadine che si giocano ogni settimana tra i dilettanti e che durano un anno intero esattamente come un derby di Genova o di Roma, dei sorrisi e delle lacrime delle decine di migliaia di bambini che rincorrono un pallone ovunque sia possibile anche dove l’erba non c’è più e ci sono ancora la polvere e i sassi o avveniristica plastica a forma di un’erba senza odore.
Ma la bellezza del calcio è anche la gente che lo guarda, che tifa, che appartiene. A Roma si gioca un derby senza curve perché per colpire poche decine di persone, chi ha potere di governo sui settori di uno stadio, ha deciso di violentare quasi una ventina di migliaia di persone per le quali il calcio è anche andare in curva. E tantissime di queste persone con l’abbonamento regolarmente pagato in tasca da tempo hanno deciso di non andare allo stadio. E non ci andranno neanche al derby, romanisti e laziali che siano. E queste persone meritano il massimo rispetto da parte di chi allo stadio ci andrà.
Io ho deciso che non andrò, perché nella partita più sentita dell’anno non andare allo stadio è il più bel gesto di solidarietà e anche di appartenenza che si possa fare. Vedrò la partita a casa, con i miei figli, un romanista e due laziali. Tutti con le sciarpe al collo. Con grande rabbia e amarezza.