Sulle figure centrali di una determinata cultura, sui pilastri umani di un determinato tessuto sociale si fonda e si gioca il futuro di un’intera collettività: Giuseppe Verdi ne era pienamente consapevole, e il suo desiderio di commemorare, celebrare, portare in trionfo i giganti dell’italica cultura trova nella scomparsa di Gioacchino Rossini, avvenuta a Passy nel 1868, il precedente e l’incipit di quel processo compositivo che lo porterà, qualche anno più tardi, a celebrare il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni con la sua monumentale Messa da Requiem.

Era il 22 maggio 1874: la Chiesa di San Marco a Milano ospitava, diretta dal suo stesso autore, la prima di una lunghissima serie di esecuzioni di quella composizione che il cigno di Busseto scrisse in qualità di contemplazione, scoperta e mistero dell’imponderabile. Attraverso le bacchette, tra gli altri, di Toscanini, Abbado, Muti e Pappano la Messa da Requiem verdiana è stata traghettata nel tempo giungendo sabato sera, nella prima di tre esecuzioni (sabato 7, lunedì 9 e martedì 10 novembre), all’Auditorium Parco della Musica di Roma, dove l’austriaco Manfred Honeck ha per l’occasione diretto l’Orchestra e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Quello chiamato a interpretare il capolavoro sacro verdiano è un vero e proprio cast d’eccezione: la soprano Krassimira Stoyanova,  la mezzosoprano Luciana D’Intino, il tenore Giorgio Berrugi e il basso Liang Li.

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Prende così vita una composizione dalle monumentali proporzioni, in quella che è una sala attenta nonostante qualche squillo di cellulare giunga inopportunamente a inserirsi qua e là. La disposizione orchestrale voluta dal direttore prevede i contrabbassi, invece che nella tradizionale posizione sulla destra, alla sua sinistra. I violini, in genere alla sinistra del direttore, sono collocati su entrambi i lati, mentre viole e violoncelli prendono insieme la parte centrale del palco di sala Santa Cecilia.

Il gesto con cui Honeck dà il via al tutto, col Requiem et Kyrie iniziale, è estremamente lento, meditativo, posato, per l’assoluto silenzio in sala e la migliore disposizione d’animo dei professori d’orchestra. Il Dies Irae, forse il momento più noto e atteso dell’intero componimento sacro verdiano, è, sotto la direzione di Honeck, estremamente potente, tuonante, diretto: gli orchestrali vengono portati a una velocità e un impegno notevoli, il messaggio e la magnificenza di questo brano giungono chiari a un pubblico visibilmente attento ed emotivamente coinvolto. È questo uno di quei passaggi che racchiudono in sé tutto il senso del capolavoro verdiano, laddove alla meditazione sull’inevitabilità della morte prende il sopravvento lo sgomento dinanzi la sua imponderabilità: uno di quei brani la cui grandezza, le cui altezze giungono oltre l’umana possibilità di raziocinio, fino perciò a scuotere, commuovere, disperare e lacerare lo spettatore. Una finestra aperta, come tutto il resto del capolavoro sacro verdiano, sull’incontemplabile, sull’oltre, sulle frequenze dell’aldilà: il suo continuo ritorno, all’interno della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, segna e scandisce poi l’intera composizione intervallandone alti e bassi, dubbi e certezze, meditazioni e sgomento.

Pregevoli sono poi il tenore Giorgio Berrugi e il basso Liang Li rispettivamente nell’Ingemisco e nel Confutatis, sotto una direzione, quella di Honeck, complessivamente molto chiara, precisa, per nulla ridondante e di grande compostezza. Grande è poi la prova di capacità che da il coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nel gioioso e a tratti giocoso Sanctus, una fuga a due cori che segue immediatamente all’Offertorio, affidato quest’ultimo ai soli solisti. Il Lux Aeterna, affidato a mezzosoprano, tenore e basso, racchiude poi in sé tutta la profondità del pensiero che permea la mastodontica opera sacra di Giuseppe Verdi.

I tre cantanti la interpretano tanto bene da rasserenare gli animi e preparare adeguatamente al grande epilogo, quel Libera Me per solo soprano e coro che, con inquietudine e irrequietezza, rivolge all’altissimo l’ultima preghiera, l’estrema richiesta dell’eterna liberazione. La Stoyanova, nonostante un raffreddore che l’avrebbe dovuta tener lontana dal palco di sala Santa Cecilia, decide non solo di prestare la propria voce, ma di farlo con grandissimo trasporto, pathos, chiudendo il Requiem nella migliore delle performance possibili: un “Libera me, Domine” in registro grave che consegna al suo epilogo, con grande profondità, un’esecuzione complessivamente brillante.

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