Cultura

‘Sarajevo novantadue’, il racconto dell’assedio attraverso una storia intimista e familiare

Dal luogo dove è seduto può scorgere qualcosa della distesa straordinaria e disordinata delle case dell’antico quartiere turco le cui forme vanno a confondersi nelle vicine e larghe strade imperiali, occupando quel che rimane di spazi maestosi. La città è bellissima, oggi, una tentazione irresistibile a lasciare ogni dovere, e profumata, perché i peschi sono già fioriti nei giardini e grappoli rosa di petali pendono al di qua delle staccionate che si affacciano sulle strade che salgono verso le colline, da dove giunge l’odore della corteccia dei pini e della resina. Anche i parchi della città si stanno preparando alla nuova vita, come ogni anno del resto, bisogna solamente aspettare qualche settimana o forse addirittura qualche giorno, se il tempo continuerà a essere mite come è stato finora.

È il 4 aprile del 1992 e il tempo, effettivamente, continuerà a essere mite nei giorni seguenti, creando un contrasto ancora più angosciante con quello che accadrà alla città e alla sua gente: inizia l’assedio (nonostante questa parola all’epoca venisse rifiutata dagli organi internazionali e dai mass media per non apparire troppo “di parte”) più lungo della storia contemporanea. Sarajevo, simbolo della multiculturalità, verrà lacerata, stuprata, umiliata per più di mille giorni dai fucili, dai cannoni, dai mortai e dai carri armati delle truppe serbe e dalle milizie serbo bosniache.

È nella vigilia del massacro che si sviluppa il bel romanzo di Massimo Vaggi, Sarajevo novantadue (Edizioni PaginaUno), una storia intimista, familiare e corale, che racconta le vicende che ruotano intorno a Milo, sedicenne futura promessa del calcio, costretto ad accantonare i suoi sogni di gloria e ad imparare l’arte della sopravvivenza. Scompare l’amore, scompare la scuola, scompaiono gli amici, rimane solo il gioco del calcio, mutilato e senza futuro, un campo di cemento tra quattro condomini relativamente al sicuro dalle cannonate e dalle granate degli assedianti.

Attraverso Milo il lettore viene a conoscenza delle persone che gravitano intorno a lui: l’allenatore Ibrahim, che non perde mai la speranza di poter dare ai suoi allievi una possibilità di un futuro migliore; il professor Simo Zivanovic, bloccato nel quartiere occupato di Grbavica, che deve accantonare il romanzo che sta scrivendo (la storia del contadino Jovan, rapito nel 1531 per lavorare alla costruzione della moschea del Bey) perché la sua testa si ostina a rifiutare la creatività, assorbita dal nichilismo che aleggia nell’aria; il padre Hasan, giornalista del quotidiano Oslobođenje che dopo aver assistito al massacro di Bijeljina perpetuato dalla soldataglia di Arkan a danno della popolazione civile, abbandona la professione per imbracciare un fucile e arruolarsi nella Difesa Territoriale Bosniaca.

Sarajevo novantadue è un libro realistico e scritto in modo sincero, non cade nel facile pietismo ed è capace di raccontare un’importante pagina di storia analizzando le piccole cose del quotidiano, lasciando da parte gli eroi della prima pagina e concentrandosi sulle persone comuni. Riuscita è anche la scelta di inserire bozze di romanzo (la storia del contadino Jovan) all’interno del macro romanzo, scelta che aiuta a capire le dinamiche multiculturali di Sarajevo dal millecinquecento agli anni Novanta del secolo scorso.