Rania al-Abbasi, dentista, è stata arrestata nel 2013 insieme ai suoi sei figli (il più grande di 14 anni, il più piccolo di due), il giorno dopo che suo marito era stato arrestato a seguito di un raid nella loro abitazione. Dell’intera famiglia, da allora, non si hanno più notizie. Si pensa che sia stata presa di mira perché forniva assistenza umanitaria ad altre famiglie.
Gli otto componenti della famiglia al-Abbasi fanno parte degli almeno 58.000 “desaparecidos” civili del conflitto siriano. Un fenomeno sistematico, una campagna attentamente pianificata dal governo di Damasco per spargere il terrore e stroncare la minima forma di dissenso.
Tra gli scomparsi vi sono oppositori pacifici, manifestanti, attivisti per i diritti umani, giornalisti, medici e operatori umanitari, tutti presi di mira perché sospettati d’infedeltà verso il governo o perché parenti di ricercati. Gli scomparsi vengono di solito trattenuti in prigioni sovraffollate, in condizioni terribili, tagliati fuori dal mondo esterno. Molti muoiono a causa delle malattie e della tortura o sono vittime di esecuzioni extragiudiziali.
Le sparizioni forzate sono diventate una pratica talmente costante in Siria da aver dato luogo a un mercato nero nel quale “intermediari” o “negoziatori” ricevono tangenti che arrivano fino a decine di migliaia di dollari da parte di famiglie che vogliono disperatamente sapere dove si trovano i loro congiunti o se questi sono ancora vivi.
Secondo un attivista siriano per i diritti umani citato nel rapporto pubblicato giorni fa da Amnesty International, queste tangenti sono diventate “una parte notevole dell’economia”. Un avvocato di Damasco ha dichiarato che le sparizioni sono diventate “una vacca da mungere, una fonte di finanziamento su cui fare affidamento”. In questo modo il ciclo delle sparizioni finisce per autoalimentarsi.
Alcune famiglie hanno venduto le loro proprietà o esaurito i risparmi di una vita per conoscere la sorte dei loro cari e spesso hanno ricevuto solo false informazioni. Un uomo, i cui tre fratelli sono scomparsi nel 2012, ha raccontato ad Amnesty International di aver dovuto prendere in prestito oltre 150.000 dollari per una serie di inutili tentativi per rintracciarli. Ora si trova in Turchia, dove lavora per ripagare i debiti.
I parenti che cercano informazioni per conto loro sulla sorte dei parenti scomparsi rischiano spesso l’arresto o finiscono per sparire a loro volta, col risultato che non resta altro che rivolgersi agli “intermediari”. Un uomo che aveva chiesto informazioni sul fratello è finito in prigione per tre mesi, trascorrendo diverse settimane in isolamento. Un altro uomo che si era recato a Damasco per avere notizie del figlio è stato fermato a un posto di blocco militare e da allora non si hanno più sue notizie.
Il rapporto di Amnesty International fa luce sul trauma psicologico, sull’angoscia, la disperazione e la sofferenza fisica delle famiglie e degli amici delle vittime di sparizione forzata. Saeed, il cui fratello Yusef è scomparso nel 2012, ha raccontato che sua madre non smette mai di piangere: “Ogni tanto di notte mi sveglio e la vedo, insonne, fissare la sua fotografia e piangere”.
Oltre un anno e mezzo fa, nel febbraio 2014, il Consiglio di sicurezza ha adottato la risoluzione 2139 che chiede la fine delle sparizioni forzate in Siria. Risoluzione totalmente ignorata.