Dal doping di Stato al doping globale. L’allarme lanciato ieri dalla pubblicazione del report della Commissione d’inchiesta indipendente della Wada – per quello che si può giustamente definire un “doping di Stato” russo, date la supervisione e la connivenza dell’esecutivo e addirittura del servizio segreto Fsb, temibile erede del Kgb – è in realtà solo la prima parte di una lunga e auspicabile indagine che potrebbe scardinare un sistema globale di produzione, utilizzo e copertura di sostanze dopanti diffuso in tutto il mondo. La protezione governativa degli atleti di punta, il presunto interessamento del ministro dello sport Vitaly Mutko, la presenza di uomini del Fsb nel laboratorio antidoping di Mosca durante le Olimpiadi di Sochi 2014, ricordano da vicino quelli che sono i più famosi esempi di doping di Stato del passato: la Germania dell’Est e l’Unione Sovietica. Ma anche negli esempi storici sarebbe sbagliato limitare il doping di stato al Patto di Varsavia, sebbene declinato nel capitalismo questa pratica è stata fondante anche in Occidente: dall’Italia agli Stati Uniti, alla Spagna.

Oltre 500 medaglie, di cui 160 d’oro alle Olimpiadi, e oltre 3mila titoli internazionali tra il 1961 e il 1988 per un paesino di poco più di 16 milioni di abitanti: questo il bilancio della Ddr (Repubblica Democratica Tedesca) in quello che è il più famoso caso di doping governativo, programmato dal celeberrimo Piano di Stato 14.25. L’immagine simbolo degli effetti deleteri di questa specie di piano quinquennale prestato allo sport è Heidi Krieger: nel 1986 vince l’oro agli Europei di Stoccarda nel lancio del peso femminile, ha vent’anni. Oggi ne ha quasi cinquanta e dal 1997 si chiama Andreas Krieger: le pillole blu, le infiltrazioni di steroidi e ormoni l’hanno fatta diventare un uomo. Come la Germania dell’Est, anche molti altri paesi di oltrecortina come la Cecoslovacchia, o comunque sotto l’influenza di Mosca come la Finlandia, hanno pianificato nei laboratori le numerose vittorie negli sport di eccellenza. La letteratura ci restituisce un’atmosfera di spionaggio, pedinamenti, controlli, costrizioni e doppi giochi, rigorosamente in bianco e nero e in ambienti freddi e rarefatti.

Il panopticon è certamente quello sovietico, la stessa Urss ha programmato le sue vittorie nei laboratori di medicina, come la Wada sostiene abbia fatto negli ultimi anni la Russia, ma sostenere che il doping di stato è caratteristica dell’Est è una enorme falsità storica. I primi anabolizzanti per migliorare le prestazioni sportive circolano nel libero mercato statunitense già dagli anni Cinquanta, e il doping ematico è nato in Italia, con la supervisione dello stato e del Coni. Sono i primi anni Ottanta quando il Governo e il Coni presieduto da Franco Carraro decidono di finanziare il Centro Studi Biomedici di Francesco Conconi per “migliorare le prestazioni degli atleti”. L’autoemotrasfusione porta gli azzurri a vincere medaglie in serie, da Los Angeles 1984 alle Olimpiadi Invernali di Lillehammer dieci anni dopo: ma l’Italia è un passo avanti, i controlli ancora non guardano all’ematocrito per cercare l’Epo, e gli azzurri la fanno franca. Nel 2004 una lunghissima inchiesta giudiziaria condotta tra Bologna e Ferrara riconosce l’uso di doping sistematico, la maggior parte degli imputati se la cava con la prescrizione: tra questi un certo Michele Ferrari, che negli anni Ottanta faceva vincere il record dell’ora a Moser e negli anni Zero sette Tour de France (poi revocati) a Lance Armstrong.

E passiamo quindi all’America, una decina di anni fa un report dell’Agenzia Antidoping ha rivelato che la maggior parte delle positività trovate negli Usa dal 1984 fino a Sidney 2000 (le ultime Olimpiadi prese in considerazione dal dossier) sono state coperte o nascoste: le prove e le provette distrutte. Sembra di leggere il documento reso pubblico dalla Wada ieri nei confronti della Russia. Lo scandalo esploso con Marion Jones (5 medaglie a Sidney) e il laboratorio della Balco rimandano un’atmosfera a colori, edonista e piena di spot pubblicitari. Non così lontana però da quella in bianco e nero della Germania dell’Est. Quando non è lo Stato a pianificare istruzione e sanità, non lo fa nemmeno nel doping, che diventa appannaggio di industrie in regime di libera concorrenza tra loro: ma il risultato non è molto diverso, e dato il laissez faire e la precisa volontà di non controllare da parte degli organi federali, anche qui si può parlare tranquillamente di doping di stato.

Che non si è certo esaurito, se si pensa che l’Usada (antidoping americano) in un dossier di mille pagine ha definito quello di Armstrong e della Us Postal “il più grande sistema doping del mondo”. E cosa dire dell’Operación Puerto esplosa in Spagna nei primi anni Duemila, che si è concentrata soprattutto sul ciclismo ma che copre un lasso di tempo in cui la Spagna comincia a vincere sorprendentemente in tutti gli sport: calcio, tennis, basket e così via. E siccome siamo ovviamente in epoca di globalizzazione, ecco che tra i clienti del dottor Eufemiano Fuentes troviamo sportivi di tutto il mondo, compresi molti atleti italiani, anche alcuni celebrati solo pochi mesi fa dalle fanfare di media nostrani per le loro vittorie. E non è certo finita qui, dato che in Italia dopo il caso Schwazer le procure di Bolzano e Padova hanno avviato una nuova inchiesta che ha scoperchiato nuove connivenze del Coni nei mancati controlli agli atleti italiani. Siamo solo all’inizio, ma sembra di vedere una replica del processo concluso dieci anni fa a Bologna che stabilì che in Italia si faceva doping di stato. Così come siamo solo all’inizio dell’inchiesta della Wada: le carte raccontano un intrigo internazionale di laboratori, tangenti, sponsor e corruzione di cui protagonista non è certo solo la Russia.

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