Due figure importanti del teatro nostrano contemporaneo, così lontane così vicine, alle prese con grandi firme, grandi nomi, pesanti fardelli del passato. Stefano Massini che si confronta con uno dei testi meno conosciuti di Pirandello, ‘Quaderni di Serafino Gubbio operatore’, che è diventato ‘Si gira’, e Antonio Latella che, nel quarantennale dalla morte di Pasolini, mette in scena questo ‘Ma‘, dedicato alle donne, alle madri, a tutte le mamme dei romanzi, delle poesie, delle pellicole dell’autore di Casarsa della Delizia.
La cornice pirandelliana c’è tutta, con il suo stuolo di riflessioni sulla realtà, sulla finzione, nel gioco di ciò che è vero e di ciò che è creduto tale. In questa osmosi e passaggi di pensiero, in questi scambi tra il corpo e la sua immagine riflessa, il ragionamento dell’autore siciliano trova i suoi poli da una parte nel reale e dall’altro nella sua riproduzione cinematografica, tanto più reale quanto più falsa e artificiale. E’ proprio il doppio, per quanto non reale, ma per questo non certo non reale, a dare il la per l’indagine. L’Arca Azzurra, ancora senza Ugo Chiti, torna tra le braccia di Stefano Massini (che qui cura adattamento e regia) con il quale aveva messo in piedi il ‘Principe’ machiavellico. E anche questo ‘Si gira’ respira di quell’atmosfera giocosa, colorata, piena, surreale. Come stare dentro ‘Nuovo cinema Paradiso’, assaporando Cinecittà, dentro ‘The artist’ sognando Hollywood.
La cinepresa si mangia la realtà per risputarla riproducendola. Se però ai compagni trentennali dell’Arca togli la lingua chitiana, grezza come una zolla dove sbucciarsi le ginocchia, verace come una pappa al pomodoro, sanguigna come una vanga che affonda nella vigna, i vari Costagli, Frosali (anche se il suo monologo è toccante), Colzi perdono forza e impeto. Danno nuova linfa gli “esterni”, i “giovani”, dall’energico Duccio Baroni al vivace Gabriele Giaffreda, già presente nel loro ‘Malato immaginario’, fino alla pimpante Silvia Frasson.
Oggi siamo burattini che si rivedono vivere in stile Grande Fratello, dai selfie ai video casalinghi e amatoriali, alle telecamere poste ad ogni angolo delle strade in città, chiamala sicurezza o controllo, tutti forsennatamente a caccia di quella spontaneità artefatta e costruita per risultare impeccabili nel momento di questo ciak continuo che è divenuta la vita. Dove tutto è falso e dove tutto deve sembrare vero, in questo scollamento, in questa frattura e intercapedine, l’unica cosa vera restano gli animali (pensiamo alla corrida, dove l’uomo sa che sta ritualizzando, spettacolarizzando, giocando, mentre il toro mira per sopravvivere), liberi proprio perché non sanno fingere (ed infatti la tigre è l’unico personaggio che non appare mai).
“Il teatro dove tutto è finto ma niente è falso”, Gigi Proietti. Se nella vita accade qualcosa di eccezionale, anche drammaticamente straordinario, siamo più pronti a filmarla, per poi “condividerla” dicendo agli altri con questo gesto “Io c’ero”, ero nell’azione, presente e protagonista della Storia, che ad aiutare, siamo più invogliati e predisposti all’essere registi senza sporcarsi le mani che primattori con tutti i rischi che questo comporta. Ormai l’importante non è fare ma far sì che, quando si fa ci sia qualcuno pronto a filmare la nostra piccola, insignificante o grande impresa.m
“Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male”, Eduardo De Filippo. Antonio Latella, immette segni come sangue vivo irrorando i testi e creando così una drammaturgia sulla drammaturgia, ampliando esponenzialmente sensi e significati, ci convince di più quando ha a che fare con imponenti strutture, con moltitudini attoriali, lì dove può esercitare tutta la sua fantasia rispetto al monologo, come in ‘A.H.’ o ‘Caro George’, dove non riesce a ben svilupparsi e librarsi. Così anche in ‘Ma’ la staticità dell’attrice (Candida Nieri, muscolare e ben piantata nelle pieghe del trattato), immersa in due grandi scarpe, come pinne da sub, che ne fanno il passo impacciato come albatro a terra, tomaie da clown, ci blocca su un testo fitto di poetiche e vortici macchinosi, ci inchioda al pensiero appesantito (di Linda Dalisi), in una preghiera lamentosa dondolando in avanti con tanto di panno che avvolge un microfono-bambino in fasce, davanti ad una grata-gabbia-carcere dove si illuminano abat-jour di varie dimensioni, il lume della ragione, l’intelligenza che come fiammella ogni tanto s’attiva e s’accende.
I segni ci sono ma sono distillati in un impianto fisso e immutevole. Manca lo sprint e l’effetto che sempre ci regala Latella, basti pensare agli ultimi ‘Un tram che si chiama desiderio’, ‘Francamente me ne infischio’, o ancora ‘Natale in casa Cupiello’ e ‘Ti regalo la mia morte, Veronika’, complessi marchingegni dagli ingranaggi semantici. ‘Ma’ che è certezza genitoriale e anche locuzione dubbiosa. Le grandi scarpe sono i passi che a Pasolini è stato impedito fare. Grandi scarpe come quelle da pagliaccio da circo, perché l’Italia era, e resta, un Paese ridicolo e melodrammatico, e che PPP aveva smascherato, un Paese che vive di eccessi e lamenti, di allegrie e tristezze entrambe illimitate. “Dove vado io con questi piedi?”, dice la madre, quella figura mitizzata, gigantesca e ingombrante in e per Pasolini.
P.P. è anche l’assonanza, la parola onomatopeica dell’urina infantile, così tanto distante dal fallo potente e adulto così presente e pugnace nelle sue opere. E che da “fallo” si possa passare, con una forzatura letteraria, a “fall”, cadere in inglese, come in quel novembre, ma che ci dà spunto anche per il “falling in love”, l’innamorarsi supremo, l’amore per la madre, infinito, irraggiungibile, non è casualità.