Acri, ai piedi della Sila, l’altopiano dall’aria più pulita d’Europa, ogni anno ospita il Premio nazionale Vincenzo Padula: “prete rosso” antiborbonico, letterato meridionalista dalla parte dei contadini. Quest’anno alla sua VIII edizione e un parterre de rois. Una giuria tecnica presieduta da Walter Pedullà e una popolare di studenti e docenti delle scuole hanno premiato Maurizio Torchio per Cattivi, Umberto Ambrosoli per Coraggio, Vito Teti per Terra inquieta, Gianni Riotta per il giornalismo, Vinicio Capossela per la musica, Daniel Pennac per la letteratura straniera, Ettore Scola per la parola che si fa immagine cinematografica.
Arriva direttamente dalla ville lumière il padre di Benjamin Malaussène le cui traduzioni italiane sono affidate a Yasmina Mélaouah, giacché tradurre Pennac è sovente un’operazione metalinguistica e che sia oralità o scrittura il traduttore, a dirla con Palazzeschi, diventa un saltimbanco, da acrobazie tra le lingue: quella di partenza e quella d’arrivo. Sorriso disarmante, Legion d’onore per le arti e la letteratura, popolarità da cult, nel suo viaggio a sud Pennac è accompagnato da quel Roberto Roberto che a Napoli ha traghettato una rete d’artisti europei, da Peter Brook a Peter Greenaway. Del premio che è venuto a ricevere la cosa che più l’affascina è essere stato scelto da una giuria di giovani: “i premi preferiti – dirà in una sala gremita dove tanti non riusciranno ad entrare – sono quelli che ricevo dai lettori” perché la “cultura non è proprietà privata” e il sapere va condiviso.
Ha una certa ritrosia a parlare della ferita di Charlie Ebdo, “segnale d’una guerra” tra nord e sud del mondo; “scrittore metaforico”, non ama dare letture geopolitiche, più che certezze possiede intuizioni. Nella Regione dai quotidiani sbarchi, teatro della rivolta di Rosarno e modello d’accoglienza nella Riace di Wenders, Pennac preferisce tessere l’elogio del multiculturalismo. Lo fa partendo da Belleville, quartiere brulicante e multietnico dove è nata Édith Piaf, la môme, in cui vive da sempre, che grazie ai suoi romanzi è diventato immaginario. Un luogo colorato da sincretismo razziale: ebrei o armeni fuggiti ai massacri turchi, russi scappati dalla rivoluzione, spagnoli, italiani in fuga dal fascismo, cinesi, vietnamiti o chi è arrivato dall’America latina per fuggire dalle dittature. Sono “loro che hanno fatto la Francia di oggi e quelli che verranno, dalla Siria e d’altrove, faranno la Francia di domani”. Un movimento naturale del XX secolo, una “mischia da preservare con cura” da volontà destabilizzanti con la pratica dell’inclusione, ad evitare nuove Sarajevo o altre Beirut.
Una visione sulla contemporaneità che cede il passo a un’annotazione personale. Succede quando Pennac si rivolge direttamente a Ettore Scola (finora non s’erano incrociati) e cita tre suoi film: Una giornata particolare (preferito da sua figlia), La terrazza (preferito dalla moglie) e il suo film preferito, C’eravamo tanto amati, per dire che Scola è riuscito a dividere la sua famiglia, unita su tutto fuorché su questo. Finisce tra gli applausi nel ricordo di Pasolini con insolito un Pennac che, parafrasando Domenico Modugno & Ennio Morricone, canta in italiano Uccellacci uccellini proprio come faceva con sua figlia Alice mentre l’accompagnava, sulle spalle, a scuola.
Quando un attimo dopo Ettore Scola sale sul palco a ritirare il premio, inizia parlando in francese quasi che il pubblico non ci fosse e come a restituirgli l’intimità familiare gli dice, in una sorta di gag, che invece la sua, di famiglia, Pennac l’ha unita giacché la figlia l’ha costretto a leggere uno dei suoi libri e da lì è stato amore a prima vista. Un intenso dialogo privato, a due, in pubblico, come libri che si parlano tra loro. Dialogo che continuerà nell’androne di Palazzo Sanseverino e a cena. Difficile sapere cosa si siano detti, parlavano fitto fitto e non era certo solo per attribuire somiglianze cinematografiche a qualcuno dei commensali. Forse neanche la deliziosa signora Gigliola Scola che sedeva accanto sarà riuscita a captare. E nemmeno Maurizio Torchio, autore beat d’un monologo interiore sul carcere, affascinato da quella strana, straordinaria coppia. Resta il sospetto che Pennac sia venuto anche per incontrare Scola. Magari col tempo ne sapremo di più. Quel che è certo è che ritornerà, presto, a Cosenza. Singolare Regione la Calabria. In fondo, è molto Belleville.