E’ stata appena inghirlandata dal Wall Street Journal, il quotidiano più intelligente del pianeta, “Fashion Innovator 2015″. Ma Miucci Prada non ama parlare dei suoi allori, piuttosto del premio dato al malmostoso vichingo Karl Ove Knausgaard per la Letteratura. Serata glamour al Moma di New York, la solita lobby scintillante di socialite e celebrities (che barba, che noia!) e anche su questo Miuccia sorvola. Mi siedo con lei al tavolino in formica anni ’50, in stile Grand Budapest Hotel (è stato, di fatto, progettato dal regista Wes Anderson) del Café del suo santuario, la Fondazione Prada. E mentre ExpoLand partoriva un topolino Miuccia dava alla luce 11mila metri quadrati di spazio espositivo ricavati da un’ex distilleria di spazio compresa una torre tutta ricoperta di foglie d’oro.
Miuccia non se la tira, di scorza di riservatezza è fatto il suo guscio, non si lascia incantare facilmente, il suo gusto minimal-intelletual-chic le fa da scudo ma l’uomo venuto dal Nord la colpisce, con quell’aria scapigliata da rockstar e sguardo di ghiaccio. Laconico ha lasciato la prima moglie: “Vado in Svezia a riflettere un po’”. Non è più tornato, si è innamorato di una sua allieva di seminario e ci ha fatto quattro figli. Nel frattempo si è messo a scrivere la sua ‘Ricerca del tempo perduto’, cioè la sua vita in opera omnia di 3500 pagine, suddivise in quattro tomi. Sorride Miuccia: “Ho già dato, mi sono letta tutto Proust, il vero”. Apro la borsa, tiro fuori un libro, par hasard è il mio, ‘Il Sacrificio di Eva Izsak’, dedica: “A Miuccia, alla ricerca che conduce lontano. Alla volontà senza risparmio”.
Due macadamia nuts, due mandorle, un canapè al burro d’acciughe infilzato e si comincia il Grand Tour della mostra di Gianni Piacentino, una sintesi fra design industriale, strumenti ingegneristici e artigianato. Pezzi di geometria pura, aerodinamica, sembrano pronti per lanciarsi in volo. Sono usciti da aziende meccaniche di carrozzeria di auto e aerei, con le sue iniziali trasformate in logo industriale. L’artista è ancora in tuta da lavoro e dà l’impressione di avere appena finito l’ultima saldatura. In divisa aerodinamica, con giubbotto di pelle nera da motociclista, anche per Germano Celant, il Sovrintendente della Fondazione. Toh, c’è anche Maurizio Cattelan che fa un ironico inchino a Domiziana Giordano. Eclettico il suo percorso: artista-attrice-artista. Cattelan le fa: “Ho visto 30 volte il tuo film “Nostalghia” di Tarkovskji, un mito. E, capelli di rame raccolti in una treccia, me la lascia in stupore esponenziale”.
Poi si corre alla Fabbrica del Vapore per un finissage. E con ancora ghiribizzi di movimenti in testa, anche gli “Hanbok” sembrano volteggiare nell’aria sulle risonanze vibranti delle Won Kwang-sik, campane di bronzo che i monaci buddisti suonavano nei loro templi. Gli “Hanbok”, che è anche il nome dell’esposizione, sono costumi tradizionali coreani, sublimi abiti da cerimonia ricamati con un rosario di ambre e giade incastonate sulla seta grezza, adesso reinterpretati da giovani creativi. Fra questi la disegnatrice artigianale di tessuti Benedetta Setti che ha avvolto i trigrammi (che simboleggiano forza, radianza, acqua e terra) dell’antico “Libro dei Cambiamenti” (l’equivalente de I Ching) in nuvole di chiffon: “Perché nulla di serio può nascere senza fondarsi sulla tradizione, non può prescindere dai legami con il proprio Paese, da quello che è stato fatto nel passato”.
Vive di opposti, oscillando anche lui fra lo yin e lo yang. Othelloman, voce rap di denuncia, dirotta un flusso d’energia di giovanissimi e talentuosi rapper da SuoniSonori, un laboratorio di Hip Hop alle spalle di Porta Romana. L’occasione è magistrale, quarto appuntamento a Milano del “Festival dei beni confiscati alle mafie“. Hurrà, un urlo di liberazione. Si restituisce alla società ciò che già gli apparteneva. Othello, che per sua stessa definizione fa cazzeggio in modo serio, rappeggia: “Le idee si attaccano, non muoiono…”. Applausi. “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”, ragazze dagli sguardi senza sorriso se lo sono stampato sulla t-shirt.
E per dirla con Antonio Calabrò, sofisticato scrittore palermitano: “La mafia non è stata eliminata. Ma è stata molto, molto indebolita”. Adesso il microfono passa a Fabrizio Bruno, laurea in Scienza dell’Educazione, ideatore di SuoniSonori, lab di creatività itinerante (visto che va in giro per comunità di recupero e carceri per creare un ponte fra il dentro e il fuori). Alleva talenti in erba, come il gruppo “Gang Boys”, età compresa fra i 12 e i 17 anni, sono orfani e vengono dall’Albania, dalla Tunisia, dall’Egitto. In un impetuoso mix di rap e sonorità mediorientali gridano il loro disagio sociale, perché la musica non conosce differenze ma può fare la differenza. Lo ha detto Ennio Morricone, mica io.
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