Un “superamento” che solo ora diventa chiaro come il sole nella sua portata è il seguente: dal 13 dicembre dell’anno scorso un regolamento della Ue rimuoveva l’obbligo di indicare sulle confezioni lo stabilimento di lavorazione degli alimenti (eccetto carni e latticini) che giungono sulle nostre tavole. In pratica, non sappiamo più da dove proviene il cibo che stiamo ingerendo. Né a quali condizioni contrattuali e di lavoro è stato prodotto.
Che dire? L’Unione Europea è magnanima: continua a dispensare doni alle banche e alle multinazionali. E poco importa se tale contegno munifico va, poi, a detrimento dei lavoratori e delle ditte locali, ma poi anche del cosiddetto made in Italy. L’importante è che sempre e comunque trionfi il sacro principio della competitività globale. E guai a chi osi metterlo in discussione! Automaticamente sarà bollato e silenziato dal coro mediatico politicamente corretto come fascista, stalinista, retrogrado, antimoderno e oltranzista. Meglio il paradosso del pregiudizio, diceva Rousseau.
Sempre più si ha l’impressione che il morbido e suadente ce lo chiede l’Europa (la frase preferita dei politici sviliti al rango di tecnici e di specialisti senza intelligenza) nasconda, in realtà, il ben meno permissivo imperativo ce lo impone l’Europa. Il margine di contrattazione e anche solo di discussione dialogica e razionale pare davvero minimo. Gli imperativi del mercato, proprio come quelli divini, non si discutono: si eseguono cadavericamente. E fa sorridere che a promuovere questa logica intimamente teologica siano spesso i corifei del laicismo e dell’integralismo ateistico, coloro i quali hanno venduto cuore e testa al monoteismo idolatrico dell’economia di mercato.
Pare davvero che, con il principe di Danimarca Amleto, si possa a giusto titolo dire che vi è del metodo in questa follia. Prima si fanno campagne mediatiche contro le carni rosse e contro tutto ciò che è locale e strapaesano (formaggi francesi, pizze napoletane, ecc), spesso dichiarato fuori norma dai sacerdoti della teologia economica di Bruxelles. Poi, si introduce – così è! – la possibilità di mangiare financo le larve e gli insetti. Intanto, ci si prepara al devastante Ttip, la cui portata per i salari dei lavoratori e per la produzione italiana sarà analoga a quella di uno tsunami. E ora, dulcis in fundo, ci dicono che non è più obbligatorio specificare la provenienza dei cibi. Chiunque sappia ancora fare 2+2 trarrà da sé le conclusioni, certo non rincuoranti.
Una possibile previsione, dunque, a partire da quanto accadeva nel 2014 e da quanto accade oggi. Si imporrà un modello unico anche a tavola – lo chiamo il piatto unico del gastronomicamente corretto, equivalente alimentare del pensiero unico del politicamente corretto. È il globalismo alimentare, potremmo anche dire: esso annienta il diritto alla differenza e al locale, tutto rimettendo alla potenza illimitata del transnazionale e, più precisamente, della multinazionale.
Vince una sola regola: quella del capitale, ossia quella della concorrenza spietata e della competitività neodarwiniana. Prodotti di non specificata provenienza, realizzati non si sa con quali ingredienti (insetti e larve, magari), né con quali trattamenti, né con quali diritti dei lavoratori, andranno a competere con quelli nostrani: con tutto ciò che ne consegue e che anche un bambino può immaginarsi.
Occorre allora serenamente chiedersi: chi crede ancora al mantra del ci vuole più Europa? Chi, ancora, scorge nella globalizzazione un processo in sé positivo e da favorire? Non è alle teste colonizzate dal pensiero unico del mondialismo e della modernizzazione capitalistica che occorre rivolgersi, ovviamente: ma a chi ancora conservi un barlume di spirito critico e di capacità razionale, ossia a chi – senza essere affetto dalla dilagante agorafobia intellettuale – ancora sappia valutare serenamente gli argomenti alla luce delle esperienze e di ciò che accade, senza temere il mare aperto della riflessione critica.